RITIRO ON LINE                                                                                                   
dicembre
2014  

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.   Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi. 

 

Ripartiamo da oggi,

con l’attesa di qualcosa di nuovo

che neppure possiamo immaginare.

 

Nuovo, diverso, da cosa? da chi?

Signore del tempo,

cerchiamo ogni inizio

di ripartire  di nuovo

ma nuovi non lo siamo

non lo siamo mai stati.

 

Eppure Tu, Signore della vita,

ci doni anche oggi

una novità:

gettare via tutto!

 

Perché tutto ci è di peso

quando arriverà

l’incontro con l’acqua

della vita:

la Tua Vita

che lava e purifica

ogni nostro progetto.

Che bello!

 

Questo è Avvento:

dimenticare tutto quello che siamo

perché di tutto abbiamo bisogno.

 

Allora sarà davvero

un nuovo inizio:

in casa, sul lavoro,

nella società, in politica

dove ora tutto è così vecchio

che non ha più luce

e fa paura…

 

(liberamente tratto da una preghiera di Alberto Signorini)

 

  

Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.

 

 

 

I QUADERNI DI SANT’EUSTACHIO - AVVENTO 2014

SCRUTATE I SEGNI DEI TEMPI

 

Carissimi,

questa volta ci vogliamo far “provocare” da don Pietro, già parroco per tantissimi anni della parrocchia della SS. Natività, a Roma, ed ora rettore della basilica di Sant’Eustachio, sempre a Roma, in centro, vicinissimo al Pantheon.

La sua riflessione potrà essere uno stimolo per acquistare coraggio e un abbandono incondizionato al Vangelo.

                                            

 

 

 

 

 

 

 

LECTIO  Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano che mi viene proposto.

 

“I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma Egli rispose: quando si fa sera, voi dite: bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”  (Mt 16,1-3)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEDITATIO   Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: il grande silenzio !   Il protagonista è lo Spirito Santo.

 Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso "cuore".

 

1974 – FEBBRAIO – 2014

 40 anni dal convegno detto «i mali di Roma»; ma il vero titolo era  «la responsabilità  dei cristiani  di fronte alle attese  di giustizia e di carità  nella diocesi di Roma»

Carissimi, 

la “fortuna” è a portata di mano, basta fermarsi e scorgere in ogni evento della vita un segno della Provvidenza.

Dopo tanti anni di vita pastorale diretta, mi ritrovo, gioiosamente, ad essere rettore della basilica di sant’Eustachio. Mi fermo il più possibile in chiesa per salutare, accogliere, parlare con gli innumerevoli visitatori: quanti volti stupiti, quanta ricchezza di sentimenti, quanto bisogno di sostare, riprendere fiato, e continuare la via faticosa del turista.

Sostare! È lo scopo dei “Quaderni di Sant’Eustachio”. Questo è il primo e ripropone alla riflessione di chi lo desidera quello che scrivevo alcuni anni fa agli abitanti del quartiere dove ero parroco; l’ho trovato ancora attuale: mi sembra che segua la scia e il pensiero di papa Francesco.

Un saluto e un abbraccio fraterno. 

don Pietro

 

 

RIMETTERE IN DISCUSSIONE GESU’

 

Iniziando il mio servizio nella Rettoria di S. Eustachio, sento il bisogno di condividere con voi alcuni pensieri perché possiate arricchirli con la vostra riflessione ed

 

esperienza.

 

Avverto che si rende urgente più che mai, dentro la Chiesa e nelle nostre comunità, rimettere in discussione Gesù, la sua esistenza, la scelta fondamentale della sua

 

vita, la sua umanità profondamente umana e la sua divinità divinamente semplice.

 

Mi impressiona, lasciandomi pensoso, la contraddizione, che si fa sempre più evidente, tra il bisogno palpabile di Gesù “un Dio vicino” presente nella vita di molti,

 

sempre meno sacrale, e lo strano bisogno delle Chiese di istituzionalizzarlo, sacralizzarlo, imprigionandolo nei recinti elitari dei ritualismi, delle morali e delle “opere

 

cristiane”.

 

Questo atteggiamento contrapposto si risolve nello stesso assurdo che ha concluso la vita terrena di Gesù. La casta sacerdotale e i Farisei cercavano il “Messia di

 

Dio” nello spazio sacro del popolo eletto, della città santa, la città della legge e del tempio, ma LUI stava in Galilea, a Nazareth “da dove non può venire nulla di

 

buono”, sostava in Samaria la terra dei fedifraghi e dei rinnegati, agiva nella Decapoli pagana.

 

Quando questo Galileo, questo Samaritano, impuro, frequentatore dei pagani e profanatore del Sabato, entrò nello spazio sacro di Gerusalemme, i puri custodi della

 

legge gli gridarono:

 

“Abbiamo ragione quando affermiamo che sei posseduto dal demonio!”.

 

Lui, che dialogava con tutti, cercò di spiegare, invitandoli garbatamente ma con forza: “Credete guardando le opere che compio!”.

 

Alla vista di quelle opere, infatti, la donna samaritana aveva creduto, Maria di Magdala aveva cambiato vita, Levi il pubblicano era diventato Apostolo, Zaccheo aveva

 

intaccato coraggiosamente la sua borsa per dare ai poveri, la Cananea pagana si era meritata un elogio blasfemo: “Non ho trovato tanta fede in Israele.”

 

Ma loro, i legalisti, usurpatori dello spazio sacro, non credettero, non riuscirono a leggere il SEGNO DEL TEMPO predetto dai profeti e, guardandosi bene dall’entrare

 

nello spazio profano del pretorio per non contaminarsi, lo consegnarono a Pilato gridando: “Toglilo di mezzo, crocifiggilo!”

 

E Pilato, ponendo senza saperlo un segno profetico, lo crocifisse tra due briganti, fuori di Gerusalemme. Con questa decisione spogliò il Messia della appartenenza ad

 

un popolo e lo consegnò al MONDO.

 

 

 

SCRUTATE I SEGNI DEI TEMPI!

 

 

Ho pensato di proporvi una riflessione che, spero, ci possa accompagnare nella riscoperta di Gesù. Parto dalle sue parole, al capitolo 16 di Matteo, il capitolo centrale.

 

“I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma Egli rispose: quando si fa sera, voi dite: bel

 

tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i

 

segni dei tempi?”  (Mt 16,1-3).

 

 

Papa Giovanni XXIII, nell’indire il Concilio Vaticano II, invitò tutta la Chiesa:

 

“Facciamo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi”.

 

Ora noi crediamo che il segno di ogni tempo, e per ogni persona umana, è Gesù; ma perché possa essere riconosciuto ed accolto, va liberato da una inculturazione

 

marcata ed esclusiva, da vesti troppo sacrali, da comportamenti troppo legalisti. Gesù non è né platonico né aristotelico, né agostiniano né tomista; Gesù è un ebreo

 

che ha cercato di aprire una interpretazione chiusa di un messianismo più politico che profetico. 

 

 

ECCE HOMO

 

Riecheggia in me, come una melodia dolcissima e liberatoria, l’affermazione di Pilato: “Ecce Homo!”. Fino a qualche anno fa mi riempiva di indignazione e di

 

commiserazione nei confronti del vigliacco governatore romano, ma oggi no! Rileggiamo il piccolo brano di Giovanni: è bellissimo!

 

“Allora Gesù uscì portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: “ECCO L’UOMO!”  (Gv 19,5).

 

Gesù, denudato, ricoperto solo del manto del suo corpo flagellato, è veramente l’Uomo-Dio per tutti, senza vesti di appartenenza. Solo così, nudo e insanguinato, può

 

essere il segno dei tempi riconoscibile da ognuno, chiunque esso sia e qualunque scelta faccia nella sua vita.

 

 

UN MODO NUOVO DI “FARE MISSIONE”

 

E’ sempre tempo di missione! In ogni momento della storia dell’uomo c’è bisogno di annunciarlo, di testimoniarlo, pena il fallimento dei grandi ideali e delle immense

 

risorse che attraversano tutta la storia.

 

Ma cosa vogliono dire questi due verbi, ripetuti fino ad essere ormai inflazionati: “Annunciarlo-Testimoniarlo”?

 

Il SEGNO DEL NOSTRO TEMPO, di una storia che si fa piccola, che ci rende tutti conterranei e vicini, ci sta facendo scoprire che Lui, in questi due millenni, si è fatto

 

strada da solo, ha continuato a percorrere tutte le vie dell’uomo, anche quelle più impervie e dissacrate, e nel cuore di ognuno, mediante l’effusione dello Spirito che

 

riempie la terra, ha già portato e depositato un primo annuncio. Oggi “fare missione” vuole principalmente far emergere Lui, portarlo alla luce dal segreto nascondiglio

 

di ogni cuore dove si è insediato, ospite sconosciuto, ma presente. La “Missione” l’ha  definita Lui con un paragone semplice:

 

“Il Regno dei cieli è simile al padrone di casa, che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie”.

 

 

Lui però non può venire alla luce dal cuore di ognuno se non riusciamo a denudarlo dai panni eccessivamente occidentali e a decodificarlo da una cultura troppo

 

clericale: teologie e morali fatte di primi principi, veri, ma sicuramente astratti, che affermiamo di credere, incapaci però di lasciarci coinvolgere nel rischio della vita

 

quotidiana.

 

La storia della Chiesa insegna che solo un Cristo denudato è risultato “annuncio e testimonianza per tutti”. Penso alla universalità della testimonianza di Francesco

 

d’Assisi, di Charles de Foucauld, di Dietrich Bonhoeffer, di Madre Teresa di Calcutta e di tanti altri, che si son lasciati denudare per non appartenere se non a Lui e

 

diventare “fratelli universali”. Il primo “annuncio” è iniziato con uno sconvolgimento di prospettive che S. Paolo, nella lettera ai Colossesi, sintetizzava:

 

“Qui non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”.

 

 

Un giorno Gesù ha detto: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!”.

 

Questo è il suo stile di “fare missione”. Non l’ossessione di farsi riconoscere e di imporsi, ma la gioia “di starci”.

 

Trenta anni a Nazareth, tre o quattro anni lungo le strade della Galilea, l’immobilità e la kenosi della croce. Ripeteva a tutti, come un suo chiodo fisso : “Non lo dite a

 

nessuno, non parlatene con nessuno!”. Importante non era ostentarsi ma starci, per ridare speranza alla gente al di là di ogni appartenenza.

 

 

“FARE MISSIONE” DOVE VIVIAMO

 

Per scrutare il SEGNO del nostro tempo, Gesù, è necessario smetterla di strombazzare annunci, rivendicare diritti e privilegi in quanto Chiesa, pretendere di esser

 

migliori degli altri. E’ urgente convertire questa voglia pericolosa di emergere, in un grande desiderio di STARE, da “credenti in Gesù”, lì dove ci troviamo a vivere.

 

 

 

Vi suggerisco alcuni luoghi, essenziali per il tempo d’oggi:

 

-      La famiglia: la vostra famiglia. STARCI nella fedeltà incondizionata al ruolo che svolgete (moglie, marito, genitori, figli);

 

-      Il condominio dove abitate: STARCI come segno di fraternità, di collaborazione e di pacificazione.

 

-      I sofferenti e i poveri: STARCI come servi discreti, certi che tutto quello che siamo e abbiamo porta frutto se lo doniamo, altrimenti marcisce.

 

 

-      Il lavoro: STARCI, senza arrivismi economici o di prestigio, facendo in tutto il bene degli altri, privilegiando i più insignificanti e indifesi.

 

-      La città. Impegnarsi per “fare” una città dove tutti stiano bene e collaborino per una vera Fraternità.

 

Non posso non invitarvi a scorgere il SEGNO DEL TEMPO guardando con rispetto la vita di quanti non credono o hanno fatto scelte fuori degli schemi usuali. Se

 

riusciremo a liberarci dagli schematismi che ci rendono incapaci di comprendere le ragioni di chi non la pensa come noi, allora sapremo apprezzare il buono che c’è in

 

ognuno, toccando con mano che LUI E’ LI’,  PROPRIO NEL CUORE DI TUTTI, SENZA DIFFERENZA DI PERSONE!

 

 

Permettetemi di ricordare un incontro avuto nel Sahara con alcuni Imam. Era il “natale di Maometto” (Mawlid al-Nabi); quell’anno capitava in agosto e il caldo era

 

insopportabile. Verso sera, quando i 50 gradi all’ombra iniziavano a stemperarsi e dal deserto prendeva a soffiare una “brezza soave”, mi mandarono a chiamare.

 

Rispettai l’appuntamento. Seduti in ampie stuoie sorbivano, in totale silenzio, il tè alla menta. Sguardi incrociati, ritmati solo del rumore tipico ad ogni sorso che deve

 

invadere benefico tutta la cavità orale e irrorare le narici. Quando quella musica mi sembrò un po’ monotona e il silenzio imbarazzante, mi azzardai a chiedere: avete

 

sentito l’invito del papa di Roma alle tre religioni monoteiste: EBREI, CRISTIANI, MUSULMANI di salire insieme, durante il 2000, sul Monte Sinai? Sapevo di aver

 

pronunciata una data che già di per sé è oggetto di divisione, per questo non aggiunsi altro. Passarono alcuni minuti, lunghi come decenni, poi uno degli Imam

 

sentenziò: “Se sul Sinai salirà la Sinagoga, la Chiesa e la Moschea, non servirà a nulla, ma se saliranno CREDENTI ebrei cristiani e musulmani, questo sarà un

 

segno che cambierà il mondo”.

 

Terminato l’incontro tornai a casa. Trovai che la cappella stava bruciando: le icone e i segni identitari, dei quali l’avevo riempita, erano carbonizzati, restavano solo il

 

tabernacolo, una icona di Gesù e della Madonna. Da quel giorno ricomposi la cappella solo con i segni tipici della vita e della tradizione beduina.

 

 

PAPA FRANCESCO

 

Si sente ripetere “il fenomeno papa Francesco” come se si trattasse di un evento nuovo, desiderato ma tutto sommato piovuto dal cielo come una sorpresa. Mi chiedo

 

qual è il segno che caratterizza il pensiero e i gesti di questo papa: le folle che riempiono le udienze, il bacio ai bambini, la carezza ai malati? Gesti bellissimi, ma che

 

ho visto e ammirato anche in altri papi. 

 

 

Avevo otto anni quando Pio XII arrivò a San Lorenzo dopo il bombardamento: lo rivedo benedire i corpi straziati dei morti, piangere e pregare sulle tombe profanate; mi

 

riecheggia il grido disperato della folla di noi sopravvissuti. Era un papa vicino, vicinissimo che, condividendo le nostre ferite, ci aiutò ad andare oltre le macerie e

 

riprendere in mano la speranza.

 

Ero seminarista quando Giovanni XXIII indisse il Concilio, mandò una carezza ai bambini, visitò i carcerati; veniva a trovarci in seminario e ci accoglieva nel suo

 

appartamento come un nonno che godeva a stare con i suoi nipoti.

 

Paolo VI era meno espansivo, ma bastava sentirlo parlare per comprendere che ti capiva, condivideva i tuoi interrogativi, ti stava vicino più che tu a te stesso. 

 

Giovanni Paolo I ebbe solo il tempo di dire: Dio è Padre e Madre.

 

Di Giovanni Paolo II ognuno ricorda gli incontri oceanici, i gesti di vicinanza con tutti, giovani, bambini, poveri, ammalati.

 

Anche papa Benedetto, discreto nella signorilità e timidezza, ha avuto il suo modo di stare vicino a tutti, parlando del grande Mistero di Dio, lui il teologo, in modo

 

talmente semplice da essere compreso anche da chi non aveva grande cultura né dimestichezza con la teologia. Ma il gesto che lo ha reso vicino ai deboli, agli

 

anziani, ai malati e a coloro che non riescono più a portare avanti un compito gravoso sono state le sue dimissioni.

 

 

Se questa è la storia feriale dei papi che abbiamo conosciuto, quale è la NOVITÀ di PAPA FRANCESCO, tanto che molti lo considerano come “segno del nostro

 

tempo?

 

Spero di non scandalizzarvi se parto da segni piccoli, quasi insignificanti. Ebbene, per me la novità di papa Francesco sta nelle sue scarpe, un po’ grossolane, uguali

 

alle mie e forse alle vostre, non eleganti, ma comode per andare più facilmente alle periferie del mondo, simili a quelle degli affogati nel Mediterraneo, depositate dalle

 

onde omicide sulla riva, testimoni di un cammino interrotto e di una speranza spezzata. L’altra novità è il suo vestito bianco senza segni di sovranità e di potere. Il

 

vestito bianco come quello che ci è stato consegnato nel battesimo. Bianco come quello delle suore nei paesi di missione, come l’alba dei preti quando celebrano, dei

 

medici nelle corsie degli ospedali, degli operai e dei tecnici impegnati nelle loro mansioni. E, lasciatemelo dire, bianco come le djellaba che i musulmani, tornati dal

 

pellegrinaggio alla Mecca, indossano per la preghiera. Quelle scarpe comuni, quel vestito bianco e, perché no?, quella borsa con la quale si è messo in viaggio verso il

 

Brasile stanno a dire, in modo discreto, non gridato, ma chiarissimo che il Papa, il “Santo Padre”, il Vescovo di Roma, il Pastore della Chiesa universale, il capo della

 

Città del Vaticano, è UN UOMO, come me e come tutti; per questo può parlare delle sue debolezze, delle sue crisi di fede e chiedere preghiere e aiuto.

 

Non c’è più bisogno, ormai, di Pilato per denudare il Vicario di Cristo delle vesti del potere religioso, perché lui stesso liberamente si è presentato al mondo con una

 

umanità talmente semplice che ognuno, credente o no, guardandolo, può dire con stupore e affetto: “ECCE HOMO”.

 

 

LA NOVITÀ CRISTIANA

 

Se liberiamo il Vangelo dallo stereotipo dell’essere buono e dall’impegno di tendere alla perfezione, e lo riportiamo al rapporto “trinitario” DIO – L’UOMO – GLI UOMINI

 

o, più semplicemente, DIO – IO – L’ALTRO,

 

allora coglieremo il senso profondo della conclusione che Gesù dà a tutta la vicenda umana:

 

“Qualunque cosa avete fatto al più piccolo l’avete fatta a me”.

 

 

Giovanni su questo fa la sua catechesi sull’amore affermando:

 

“Se non ami il fratello che vedi come fai a dire di amare Dio che non vedi?”

 

 

Fra tante contraddizioni e polemiche oggi appare che il “segno del nostro tempo” è la “centralità della persona umana”, la sua struttura, la sua dignità, gli uguali

 

diritti prima degli uguali doveri, e il suo destino ultimo; è il rapporto con l’altro, rivestito dei suoi panni, arricchito dalla sua cultura, professante la sua religione. Tutta la

 

storia è innervata dall’accoglienza o dal rifiuto dell’altro: accoglierlo così come ci si presenta È IL BENE, rifiutarlo o volerlo modellare a nostro uso e consumo È IL

 

PECCATO. In parole povere, di fronte a chi incrocio per strada, a chi conosco magari solo attraverso i media, o di fronte a colui insieme al quale vivo, il segno del

 

nostro tempo è l’affermazione di Pilato: “Ecce homo”.

 

 

Siamo soliti cantare: “Dov’è Carità e amore lì c’è Dio”: questo è vero a condizione che la Carità rimanga senza aggettivi e l’amore senza appartenenze.

 

 

LA CHIESA DI ROMA, SEGNO PER LE ALTRE CHIESE

 

La Chiesa di Roma è chiamata, per sua natura, ad essere  SEGNO DEI TEMPI nel servizio della Carità. Le grandi opere sociali della nostra città conservano ancora, a

 

distanza di secoli, nomi di Santi; alle grandi strutture, ormai diventate pubbliche, se ne sono aggiunte altre, nate da una Carità che si è fatta carico delle povertà,

 

antiche ma sempre nuove, delle quali parlava Gesù:

 

“Avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero straniero, ero ammalato, ero carcerato…”

 

 

Nel febbraio del 1974, quaranta anni fa, la nostra Chiesa, insieme alle strutture pubbliche, si interrogò sulle "attese di Carità e di giustizia nella diocesi di Roma",

 

nel convegno conosciuto come “Convegno sui mali di Roma”. Fu un momento difficile da gestire e da vivere. La grande novità fu il fuoco della Carità che si accese

 

nelle parrocchie, negli istituti religiosi, nel cuore dei romani.

 

Fiorirono opere che ancora oggi sono vive; su alcune s’è posata un po’ di cenere, ma basta il soffio di una Carità “coraggiosa” che sa rischiare, e il fuoco divamperà.

 

 

È azzardato proporre, nell’anniversario di quel convegno, qualcosa che rilanci un modo nuovo di accogliere e di servire una città, che ha cambiato volto ma le povertà

 

stanno lì e attendono? Quaranta anni fa organizzare un convegno che abbracciasse tutta la città fu difficile: oggi la Diocesi ha una organizzazione capillare, che

 

potrebbe rendere più facile interrogarsi, ascoltare e dare riposte nuove. Ci vuole coraggio e un abbandono incondizionato al Vangelo. “Il coraggio, se uno non ce l’ha,

 

non può darselo”, diceva don Abbondio. Ci sprona e ci accompagna il coraggio del nostro Vescovo papa Francesco.

 

 

PÈRE PHILIPPE

 

Fatemi chiudere ricordando un Prete che, insieme al suo Vescovo, ha lasciato un piccolo segno d’amore per un popolo totalmente musulmano. 

 

Sperduta tra le montagne, in Tunisia, al confine con l’Algeria, tra i primi contrafforti e i canyons degli Atlas c’è Tamerza, potente città romana e antica diocesi; ormai,

 

caduto l’Impero, è crollata anche la Diocesi.

 

Per i gruppi di pellegrini del Sahara, Tamerza era una meta fissa per incontrare Père Philippe, un sacerdote francese da oltre quaranta anni presente lì tra i contadini, i

 

pastori e i nomadi, tutti rigorosamente musulmani. Una casa essenziale: un piccolissimo disimpegno, una stanza per dormire dove con il letto e l’armadio c’era una

 

cassapanca con il Santissimo, una stanza per gli ospiti. Per oltre 40 anni: sveglia alla 4 del mattino, due ore di preghiera, celebrazione dell’Eucaristia. Solo, sempre

 

solo: Natale con la Messa di mezzanotte, Triduo e Veglia pasquale solo, assolutamente solo. Andavamo a trovarlo e, per lui, era una festa poter celebrare con noi; nel

 

piccolo cortile, presiedeva come se stesse a Piazza San Pietro e raccontava dei suoi parrocchiani, tutti musulmani: li conosceva per nome, ne condivideva la vita

 

quotidiana, li aiutava a costruire la casa e a coltivare l’oasi. Pregava per le nascite, per i matrimoni, celebrava i loro morti. La gente lo chiamava Babà Philippe.

 

Terminato l’incontro con lui, riprendevamo il viaggio tra i canyons di Mides, silenziosi nelle jeep; il commento era sempre lo stesso: “oggi abbiamo conosciuto un

 

UOMO che è un prete”.

 

Una quindicina di anni fa il nuovo Vescovo della sua diocesi in Francia inviò a tutti i preti un questionario: quanti battesimi, quanti matrimoni, ecc …  P. Philippe lo

 

rispedì con una sfilza di “zero”. Il Vescovo lo chiamò e gli chiese: 

 

“In oltre quaranta anni non un battesimo, non un matrimonio, non una conversione. Cosa stai a fare? Torna in Francia e prendi una parrocchia”.

 

Père Philippe rispose: “Monsignore, io torno, però tenga presente che a Tamerza la Chiesa delle conversioni, fondata sulla forza dell’Impero, è crollata; ora c’è una

 

Chiesa nascosta, silenziosa, piccolo segno di amore per tanti musulmani tra le montagne. Io torno, ma a Tamerza non ci sarà più l’Eucaristia, né Natale, né Pasqua,

 

non ci sarà più il segno che abbatte il muro di separazione e fa di tutti i popoli un popolo solo: non ci sarà più la Chiesa”.

 

 

Il Vescovo comprese. Andò a Tamerza e stette con lui una quindicina di giorni. Fece la stessa vita di Père Philippe, lo aiutò a costruire un pozzo per alimentare una

 

nuova oasi. Tornando in Francia portò con sé, scritta sulla Liturgia delle Ore, la frase che p. Philippe aveva fatto stampare all’ingresso della sua casa, tra i musulmani.

 

“Avvicinandoci all’altro, a un altro popolo, a un’altra cultura, a un’altra religione, il primo gesto è quello di toglierci le scarpe perché il luogo al quale ci accostiamo è

 

santo. Altrimenti noi rischiamo di calpestare i sogni degli uomini o, peggio ancora, noi potremmo dimenticare che Dio è già presente prima del nostro arrivo”

 

 

Ora p. Philippe è morto. A Tamerza non c’è più Eucaristia, né Natale né Pasqua, non c’è più la Chiesa: nessuno se l’è sentita di prendere il suo posto.

 

Andando con i gruppi verso Mides mi fermo sempre davanti al pozzo che p. Philippe ha costruito insieme al suo Vescovo. Accanto, la piccola piantagione di palme già

 

dà i primi datteri. Quel pozzo e quell’oasi che stentatamente cresce è il segno di un tempo nuovo che l’amore inaugura ogni giorno.

 

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ORATIO    Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

 

En approchant

un Autre,

un autre peuple

une autre culture

une autre religion,

notre première tâche

est de nous déchausser

car ce lieu

que nous approchons

est saint,

sinon nous risquerions

de piétiner des rêves d’hommes

ou, pire encore,

nous pourrions oublier

que Dieu était déjà présent

avant de notre arrive.

 

Quando avviciniamo

un Altro,

un altro popolo

un’altra cultura

un’altra religione,

la prima cosa da fare

è togliersi i sandali dai piedi

perché il luogo

che stiamo avvicinando

è terra santa,

altrimenti rischieremmo

di calpestare i sogni degli uomini

o, peggio ancora,

potremmo dimenticare

che Dio era già lì presente

prima del nostro arrivo.

 

(père Philippe. Tamerza)

 

 

 

CONTEMPLATIO     Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.

È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

  

Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,

nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.

Amen

 

  

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!

Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!

 

 

(spunti da una riflessione di mons. Pietro Sigurani, rettore della basilica di Sant’Eustachio, a Roma)