RITIRO ON LINE                                                                                                   
novembre 2018

                                                                                                                                                                                                                                                

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.   Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi. 

 

Porgi l’orecchio, Dio,

alla mia preghiera,

non nasconderti di fronte

alla mia supplica.

Dammi ascolto e rispondimi;

mi agito ansioso

e sono sconvolto.


Dentro di me si stringe

il mio cuore,

e mi ricopre lo sgomento.

Dico: «Chi mi darà ali come

di colomba per volare

e trovare riposo? »


(dal salmo 55)

 

Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.

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Le ore del giorno scorrono rapide. Impossibile fermarle.

Il credente però le può «redimere».

 

Continuano le lectio liberamente tratte da alcune riflessioni di don Davide Caldirola, sacerdote della Chiesa di Milano.

Buona meditazione e buona preghiera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LECTIO Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano che mi viene proposto.  (Matteo 26,47-50.69-75)

 

47Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. 48Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». 49Subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. 50E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono.

69Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». 70Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». 71Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». 72Ma egli negò di nuovo, giurando: «Non conosco quell’uomo!». 73Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!». 74Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. 75E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEDITATIO   Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: il grande silenzio !  Il protagonista è lo Spirito Santo.

 Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso "cuore".

 

Non conosco quell’uomo: l'ora del tradimento

 

 

 

La notte in cui fu tradito

La sera dell'Ultima Cena e della preghiera di Gesù nell'orto degli Ulivi, diventa da subito la notte del tradimento e dell'arresto. È la notte più cupa e triste della storia dell'umanità, preludio doloroso al dramma che si consuma nel Venerdì santo, sulla croce. Nella liturgia eucaristica, ogni giorno, noi facciamo memoria di questi istanti oscuri della vita di Gesù parlando della «notte in cui fu tradito», attribuendo a questa parte della giornata anche il momento dell'istituzione dell'Eucaristia. Ma poco importa il termine cronologico della vicenda. La notte è cifra più ampia di quanto possa indicare qualunque strumento di misurazione del tempo. È immagine capace di raccontare l'oscurità, l'impero delle tenebre, la vittoria delle forze del male, la sconfitta della luce. Proprio riferendosi all'uscita di scena di Giuda, durante l'Ultima Cena, Giovanni scrive:

 26 E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. 27 E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: «Quello che devi fare fallo al più presto». 28  Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; 29 alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa », oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. 30 Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte

(Gv 13,26-30).

 Più di un commentatore ha fatto notare come questa notte non sia solo il tempo cronologico in cui avvengono tutti gli episodi successivi, ma più radicalmente designi il cuore di Giuda, il suo stato di invincibile oscurità, la tenebra fitta («satana», v. 27) che si è impadronita di lui. Durante la notte non si può operare, dice sempre Giovanni (9,4), e sempre il quarto evangelista suggerisce che «se uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce» (11,10).

Non sarebbe probabilmente possibile recensire tutto ciò che riguarda la «categoria teologica» notte. Ci basta sapere che siamo nel campo misterioso e incomprensibile dell'azione del male, dell'agire dell'Avversario che sempre si oppone alla prodigiosa opera di salvezza del Signore. Siamo nel cuore del mysterium iniquitatis che agita le coscienze dell'uomo di sempre, che lascia senza parole e senza fiato.

 

Giuda e Pietro insieme

In questo quadro notturno  consideriamo  insieme la figura di Giuda e quella di Pietro. L'accostamento non è arbitrario. Nella narrazione dei sinottici - dalla preghiera del Getsemani in poi - sono gli unici apostoli ad essere esplicitamente chiamati per nome  durante le vicende della Passione, mentre gli altri discepoli rimangono distanti, sullo sfondo. La loro vicenda, pur così diversa negli esiti finali, è molto simile: è vicenda di paura, di rifiuto, di rinnegamento dell'amico e di se stessi, della propria dignità. È vicenda di poveri uomini incapaci di vincere il male, che cadono sotto il peso della propria fragilità. È storia di amici che amano e tradiscono insieme, come capita a tutti noi nella tempesta e nel buio della vita.

 Un altro motivo ci spinge  a considerare  insieme  la storia di questi due apostoli. Non dobbiamo mai dimenticare quanto poco separi l'uno dall'altro, la roccia della Chiesa dall'uomo che nella disperazione pone fine alla propria vita. Quando siamo tentati di pensare in termini trionfalistici alla nostra santa madre Chiesa, ad alzare i toni e far suonare le fanfare, il Vangelo ci riporta impietosamente alla realtà dei suoi inizi, a quella sfumatura, quell'ombra quasi impercettibile che separa Giuda da Pietro. Pietro è la roccia, ma è una roccia fragile, friabile. E forse deve la propria salvezza a questo suo essere «morbido», a questo suo lasciarsi lavare dal pianto dopo avere peccato e dopo essere stato raggiunto dallo sguardo di misericordia e di perdono del Maestro.

Giuda, fino in fondo, rimane duro, anche nei confronti di se stesso e del proprio male. Non pensa ci possa essere perdono, ma solo un albero a cui appendersi.

 Non è su Giuda, sulla sua durezza implacabile che lo porta ad autoescludersi e ad autopunirsi, che Gesù costruisce la sua Chiesa, ma su Pietro, l'uomo che ha dolorosamente compreso nella sua propria carne il valore del Vangelo della misericordia. La parola che rende possibile la Chiesa non è quella del giudizio inappellabile, della condanna senza scampo di chi segna puntigliosamente i confini del bene e del male e passa la vita a ribadirli, pur non essendo in grado di rispettarli, ma di chi, consapevole del proprio limite, si lascia vincere da una parola di misericordia, si lascia ridestare dal canto del gallo, accetta di lavare col pianto la macchia della propria umiliazione e della propria debolezza.

 

Chi è Giuda

Vediamo più da vicino, allora, i protagonisti dell'ora del tradimento. Vogliamo capire chi sono, e ci interessa capire chi sono «in questo preciso momento». Il Vangelo ci dà di loro - soprattutto di Pietro - moltissime altre informazioni; noi però li vogliamo fotografare in questi istanti, in questa notte di buio. Per farlo proviamo a rileggere in profondità le parole di Matteo, così come la tradizione ce le consegna. Cominciamo da Giuda.

Giuda è prima di tutto «uno dei Dodici», e continua ad essere definito così da Matteo anche nel momento in cui ci viene presentato nell'atto di tradire. Spesso nei Vangeli quando si parla di Giuda si ribadisce che è uno dei Dodici: non è un estraneo, un infiltrato, una persona oscura e cattiva che poco alla volta, con una strategia perversa e paziente, ha occupato un posto sufficientemente vicino al Maestro per poterlo ingannare e consegnare. È uno scelto da Gesù, chiamato da lui. «Ha avuto anche lui la vocazione», mi diceva sempre un vecchio padre spirituale, ma questo non l'ha messo al riparo dalla terribile possibilità di mancare e di cadere. Gesù non è stato tradito da un nemico, ma da uno dei suoi. Giuda, nel brano di Matteo che stiamo rileggendo, è «mandato con una gran folla dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo».

Se andiamo a rileggere la vicenda dei Dodici nei Vangeli, li scopriamo spesso «mandati a due a due» per evangelizzare, guarire, scacciare i demoni. Attraverso questo compito e questa responsabilità Gesù ha provato a formarli, a cambiarli, a introdurli poco alla volta nel ministero pensato e desiderato per loro. Anche in questa scena ritroviamo Giuda «mandato». Ma stavolta non è più Gesù all'origine di questo suo viaggio, di questo cammino nella notte. Giuda ha cambiato riferimento, ha cambiato padrone, ha cambiato Maestro e Signore. Ha cessato di obbedire alla parola di Gesù per affidarsi ad altre parole. Qui cambia completamente la scena. È stridente il contrasto tra le indicazioni di Gesù nell'inviare i discepoli e la rappresentazione di questa folla che accompagna Giuda. Nel Vangelo di Matteo troviamo scritto:

 9 Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, 10 né bisaccia da viaggio, né due tu­ niche, né sandali, né bastone, perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento. [... ] 16 Ecco: io vi mando come pecore in  mezzo ai lupi; siate dunque  prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. 17 Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelle­ ranno nelle loro sinagoghe; 18 e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani      (Mt 10,9-10.16-18).

 Giuda ha ribaltato la situazione della sua vita: dal non portare bastone al farsi accompagnare da una folla armata di spade e bastoni, dall'essere mandato come agnello tra i lupi al porsi dalla parte dei lupi, di chi attacca, colpisce, ferisce e uccide.

 Nel testo di Matteo, Giuda viene esplicitamente chiamato «il traditore». È così che passa alla storia, è diventato il traditore per antonomasia. Eppure anche nel momento in cui tradisce Gesù lo chiama «amico».

Occorre fermarsi qualche istante su queste due parole che nella narrazione di Matteo risuonano talmente vicine che quasi si fondono e si confondono. Lo facciamo riascoltando un testo altissimo e commovente tratto dalla più bella omelia di don Primo Mazzolari che si intitolava “Ma io voglio bene anche a Giuda”:

 Povero Giuda! Voi forse vi meravigliate di questa parola che io dico di questo infelice discepolo che a un certo momento non ha potuto mantenere fedeltà al suo Maestro. [.. .] Questa sera vi domando un po' di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno perché so quante volte ho tradito il Signore. E credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello siamo nel linguaggio del Signore, che quando ha ricevuto il bacio del tradimento nel Getsemani gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: «Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell'Uomo?». [.. .] «Amico». [... ] Noi possiamo tradire l'amicizia del Cristo: Cristo non tradisce mai noi, anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di lui, anche quando lo neghiamo. Davanti ai suoi occhi e al suo cuore noi siamo sempre gli «amici» del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consuma il tradimento del Maestro. [... ] Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola "amico" che il Signore gli ha detto mentre lui lo baciava, per tradirlo, io non posso non pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore; e forse l'ultimo momento, ricordando quella parola e l'accettazione del bacio, io credo che anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi. [... ] Perché la Pasqua è questa parola detta a un povero Giuda come me, a dei poveri Giuda come noi. [...] Ricordatevi che per lui noi saremo sempre gli amici.

 

Chi è Pietro

Abbiamo guardato a Giuda. Ora la nostra attenzione si sposta su Pietro, sulla scena del suo triplice rinnegamento, del canto del gallo, del suo pianto amarissimo.

lo spuntare di ogni nuovo giorno è preceduto dal canto del gallo che annuncia dai tempi dei tempi un tradimento.

Il canto del gallo risuona come un richiamo e quasi come una liberazione per Pietro che si trova sempre più lontano da se stesso mentre si affanna  a negare di conoscere il Maestro, mentre si smarrisce nella sua menzogna e nella paura di perdere la vita. Il canto del gallo è un risveglio. La coscienza dell'apostolo si ridesta, scopre l'errore, il male, dà un nome al proprio tradimento e al proprio peccato, si rinnova e si illumina. Si leva il sole: Pietro, alla nuova luce, al nuovo risveglio, vede chi è lui e capisce chi è il suo Signore. Il pianto di amarezza diviene anche pianto di liberazione. Ma cosa c'è prima di questo risveglio e di questo pianto? C'è tutta la menzogna di Pietro, la sua falsità, che dobbiamo imparare a leggere con grande attenzione.

 Una prima forma di falsità è la paura: Pietro ha paura di essere riconosciuto, o di essere conosciuto per quello che veramente è. Scoprirà di non essere quello che pensa di essere, scoprirà una parte di sé che gli era ancora ignota. Ma la sua paura lo porta a mentire, a sé e agli altri.

 Un'altra forma di falsità è la confusione: «Non conosco quell'uomo, non conosco l'uomo... ». Non è soltanto una forma di negazione: Pietro è veramente confuso, non riconosce più Gesù e non riconosce più nemmeno se stesso. Capisce di non aver capito nulla di Gesù, non si aspettava che le cose finissero così, anche se era stato avvertito. In questo senso, tutto il suo cammino di sequela sembra essere rimesso in discussione.

 Pietro «impreca e giura»: la sua è una parola debole, che per sembrare vera deve farsi carico di qualcosa di forte, deve assumere toni rudi, gridati, come se il volume della voce potesse dare spessore di verità a parole terribilmente deboli e vuote. C'è un crescendo nelle parole di Pietro: «Negò davanti a tutti» (v. 70); «Negò di nuovo giurando» (v. 72); «Cominciò a imprecare e a giurare» (v. 74). La falsità ti fa sempre più sprofondare. Si autorigenera, è un piano inclinato in cui acceleri sempre più fino a perdere completamente il controllo. Una bugia ne fa nascere un'altra, e poi un'altra ancora in un crescendo sempre più veloce e sempre più instabile, finché tutto l'orizzonte non è che un'unica menzogna, nella quale tu stesso non distingui più il falso dal vero.

 Pietro infine è tradito dalla sua «parlata»: “il tuo accento ti tradisce. C'è dell'ironia: con la sua parlata tradisce la Parola; il suo dialetto, la sua inflessione vocale smentiscono l'universale Parola di salvezza.

 Eppure in tutto questo dramma di falsità e di tradimento, emergono parole di verità sulla vita di Pietro. Pietro, nel suo mentire, dice la verità: non conosce quest'uomo, non l'ha mai veramente conosciuto e veramente capito (nonostante la professione di fede del cap. 16 a Cesarea di Filippo). Riconoscendo di non conoscere Gesù, Pietro capisce poco alla volta di non conoscere nemmeno se stesso, la verità della propria vita. Da lì comincia la sua ennesima conversione.

 La verità ha bisogno anche della memoria: «Si ricordò » (v. 75). C'è bisogno del ricordo costante della parola di Gesù per essere veri, del ricordo di parole  buone per trovare la strada, della memoria del bene ricevuto e del male commesso per riprendere il cammino nella giusta direzione.

La verità infine è una commozione che nasce dal cuore ferito («Pianse amaramente»): le parole vere nascono dal pianto: non quello facile, non quello retorico, ma quello che sgorga da un'autentica ferita.

Questo è Pietro: un uomo che era con Gesù e che ora si dibatte tra verità e menzogna, in attesa del canto del gallo, di un pianto liberatore, di uno sguardo di perdono.

 

Colui che bacia

Nella prima parte della nostra riflessione abbiamo lasciato in secondo piano i gesti più intensi di Giuda e Pietro: il bacio e le lacrime. Li riprendiamo ora, per rileggerli alla luce della nostra esperienza quotidiana. Partiamo da Giuda: colui che bacia.

Il bacio richiama gli affetti, la tenerezza, l'amore. A Gerusalemme, l'altare della basilica del Getsemani è costruito su  una grande roccia  dove -  secondo la tradizione - si è steso Gesù a pregare prima del tradimento di Giuda e dell'arresto. Spesso al termine della loro preghiera silenziosa o della celebrazione dell'Eucaristia, i pellegrini si chinano a baciare la roccia, come segno di pietà e di devozione. È questo un gesto sempre profondamente scosso da un'intensa commozione. In questo gesto possiamo vedere il tentativo generoso e fragilissimo insieme, di superare e riscattare con gesto di affetto il bacio del tradimento. L'ora del tradimento è l'ora del disamore, dell'amore mancato, dell'amore ferito. Questa piaga può essere curata soltanto da un affetto smisurato che si condensa in un piccolo segno, due labbra che si appoggiano alla roccia dura, che si attaccano a una pietra sicura per non tradire di nuovo.

È così che possiamo leggere anche il gesto struggente del Venerdì santo con cui i fedeli si mettono in fila per baciare il Crocifisso. È un segno che vale più di molte preghiere. È come se il seme di ogni nostra supplica morisse sulle nostre labbra per sbocciare in un bacio soltanto, è come se accettassimo di divenire muti di fronte alla morte di Cristo per lasciare parlare il nostro affetto, così fragile e così vero, così denso di amore e così segnato dal tradimento.

 

Colui che piange

Se Giuda è colui che bacia, Pietro è colui che piange. Un pianto di liberazione, un pianto sincero, finalmente, dopo tanta menzogna. Un pianto ricchissimo  che lo riporta alla verità di se stesso e - rendendolo più fragile e più umile - lo prepara ad accogliere e ricevere il perdono.

 In genere noi adulti ci vergogniamo molto quando ci viene da piangere. Soprattutto se siamo in pubblico, davanti a tanta gente: ci sembra un insopportabile segno di debolezza, inadatto a persone che vorrebbero sempre avere il controllo della situazione e una gestione sicura e senza sbavature della propria emotività.

Ma si potrebbe diffidare di chi non ti regala mai un sentimento, di chi non si commuove mai, di chi agisce con l'esattezza tecnica indiscutibile e feroce di un computer, senza mai lasciar trasparire un'emozione, un trasporto, una scintilla di partecipazione affettuosa. Piangere, a volte, fa bene. Ne percepiamo tutta la forza quando abbiamo il coraggio di commuoverci per una parola, un gesto, una musica, quando condividiamo tra le lacrime con qualcuno che amiamo la bellezza di una preghiera, l'intensità di un racconto, la consegna di un ricordo, l'amarezza di una confessione. Non dobbiamo esitare a chiedere al Signore il dono della commozione. Anch'esso fa parte di quella fragilità che è la nostra vera risorsa e la nostra forza.

E poi abbiamo bisogno di imparare a piangere sui nostri peccati. Nell'antichità il dono delle lacrime - insieme all'arrossire del volto - era recepito come un segno confortante, come qualcosa che diceva senza bisogno di parole la verità del proprio pentimento e il desiderio di ripartire in una nuova vita fedele al Signore. Imparare a piangere sui propri peccati significa entrare nella logica di quel dispiacere profondo che solo può cancellare il disamore del peccato.

Il peccato è disamore. Il cuore diventa insensibile e chiuso, incapace di amare. La vita buia, le giornate soltanto passaggi di tempo. Ci si stordisce con le occupazioni e le cose, ma non se ne esce. Quella del disamore è una trappola in cui si cade spesso.

 Allora c'è bisogno del dispiacere, delle lacrime, di quella «trafittura del cuore» di cui si parla all'inizio del libro degli Atti, che ferisce la coscienza degli uomini di Gerusalemme. Non è il dispiacere per il male ricevuto o subito, ma per il male fatto, procurato a un'altra persona: è qualcosa che conduce a «rendersi conto» e a «rendere conto» delle proprie azioni. Chi non passa attraverso questa dolorosa consapevolezza si priva della profondità dell'amore e rimane sempre in superficie, incapace a voler bene davvero.

Una volta si usava disegnare un cuore trafitto da una freccia, e scriverci a fianco due nomi. Era il segno che un ragazzo e una ragazza erano innamorati. È un segno ingenuo, ma che dice bene come amore e dolore spesso si incontrino, come sia possibile amare e ferirsi, amare e tradire. Ecco le lacrime, ecco il cuore trafitto dall'amore e dal peccato. Non possiamo fare a meno di un dono così.

 

 

 

 


 

ORATIO Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

Pietà di me, o Dio.

Nell’ora della paura

io in te confido.

In Dio, di cui lodo la parola,

nel Signore, di cui lodo la parola,

in Dio confido, non avrò timore.

Manterrò, o Dio,

i voti che ti ho fatto:

ti renderò azioni di grazie,

perché hai liberato la mia vita

dalla morte,

i miei piedi dalla caduta,

per camminare davanti a Dio

nella luce dei viventi.



(dal salmo 56)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTEMPLATIO     Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.  È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,  

nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.  Amen

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!  Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!  

 

 

(spunti liberamente tratti da una lectio di don Davide Caldirola, della Chiesa di Milano)

 

 

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