RITIRO ON LINE
marzo -  2005
 
 
 


Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.

Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, il Segno che mi è stato donato nel Battesimo e che mi contraddistingue come cristiano.

“Accogliendo ora la sua Croce gloriosa, quella Croce che ha percorso insieme ai giovani le strade del mondo, lasciate risuonare nel silenzio del vostro cuore questa parola consolante ed impegnativa: <Beati…>”.
[XVII GMG Toronto, Festa di accoglienza dei giovani, Discorso del Santo Padre, 25 Luglio 2002]

Invoco lo Spirito Santo:
 

Credo in Te, Spirito Santo, Signore e datore di vita
che ti libravi sulle acque della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l’unità e la pace dell’Amato e dell’Amante,
nel dialogo eterno dell’Amore.
Tu sei l’estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l’Amore infinito si apre nelle libertà
per suscitare e contagiare amore.

La Tua presenza ci fa Chiesa, popolo della carità,
unità che è segno e profezia per l’unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà, aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà da Te suscitata nell’Amore.

Tu sei in noi ardente speranza, Tu che unisci il tempo e l’eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
Tu che apri il cuore di Dio all’accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri peccatori, al dono dell’Amore,
che non conosce tramonto.
In Te ci è data l’acqua della vita, in Te il pane del cielo,
in Te il perdono dei peccati,
in Te ci è anticipata e promessa la gioia del secolo a venire.

Credo in Te, unico Dio d’Amore, Eterno Amante, Eterno Amato,
eterna unità e libertà dell’Amore.
In Te vivo e riposo, donandoTi il mio cuore,
e chiedendoTi di nascondermi in Te e di abitare in me.
Amen

(Bruno Forte)


Contemplo i segni della Passione che sono impressi nel Crocifisso.

“Raccolti intorno alla Croce del Signore, guardiamo a Lui…”
[XVII GMG Toronto, Festa di accoglienza dei giovani, Discorso del Santo Padre, 25 Luglio 2002]
 


 LECTIO      Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano – Genesi 37, 1-36

1 Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan.
2 Questa è la storia della discendenza di Giacobbe.
Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul loro conto. 3 Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. 4 I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente. 5 Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancor di più. 6 Disse dunque loro: “Ascoltate questo sogno che ho fatto. 7 Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio”. 8 Gli dissero i suoi fratelli: “Vorrai forse regnare su di noi o ci vorrai dominare? ”. Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole.
9 Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò al padre e ai fratelli e disse: “Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”. 10 Lo narrò dunque al padre e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te? ”.
11 I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa.

12 I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. 13 Israele disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro”. Gli rispose: “Eccomi! ”. 14 Gli disse: “Và a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a riferirmi”. Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. 15 Mentr’egli andava errando per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: “Che cerchi? ”. 16 Rispose: “Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare”. 17 Quell’uomo disse: “Hanno tolto le tende di qui, infatti li ho sentiti dire: Andiamo a Dotan”. Allora Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. 18 Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire. 19 Si dissero l’un l’altro: “Ecco, il sognatore arriva! 20 Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: Una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni! ”. 21 Ma Ruben sentì e volle salvarlo dalle loro mani, dicendo: “Non togliamogli la vita”. 22 Poi disse loro: “Non versate il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano”; egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. 23 Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica dalle lunghe maniche ch’egli indossava, 24 poi lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua. 25 Poi sedettero per prendere cibo. Quando ecco, alzando gli occhi, videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Galaad, con i cammelli carichi di resina, di balsamo e di laudano, che andavano a portare in Egitto. 26 Allora Giuda disse ai fratelli: “Che guadagno c’è ad uccidere il nostro fratello e a nasconderne il sangue? 27 Su, vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contro di lui, perché è nostro fratello e nostra carne”. I suoi fratelli lo ascoltarono.

 

 28 Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto. 29 Quando Ruben ritornò alla cisterna, ecco Giuseppe non c’era più. Allora si stracciò le vesti, 30 tornò dai suoi fratelli e disse: “Il ragazzo non c’è più, dove andrò io? ”. 31 Presero allora la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. 32 Poi mandarono al padre la tunica dalle lunghe maniche e gliela fecero pervenire con queste parole: “L’abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio”. 33 Egli la riconobbe e disse: “È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato”. 34 Giacobbe si stracciò le vesti, si pose un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto sul figlio per molti giorni. 35 Tutti i suoi figli e le sue figlie vennero a consolarlo, ma egli non volle essere consolato dicendo: “No, io voglio scendere in lutto dal figlio mio nella tomba”. E il padre suo lo pianse. 36 Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie.

Parola di Dio

La Parola di Dio scritta nella Bibbia si legge con la penna e non soltanto con gli occhi!
“Lettura” vuol dire leggere il testo sottolineando in modo da far risaltare le cose importanti.
È un’operazione facilissima, che però va fatta con la penna e non soltanto pensata.

 


MEDITATIO      Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro on line: “Il Grande Silenzio”! Il protagonista è lo Spirito Santo.
 

Giuseppe era il figlio prediletto del patriarca Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo. Era il prediletto perché era il figlio avuto in vecchiaia. Giuseppe poi è dotato di una particolare sapienza con la quale coglie la volontà di Dio dentro gli avvenimenti della vita. E queste sue caratteristiche lo pongono in cattiva luce davanti ai suoi fratelli invidiosi che lo considerano solo un sognatore. Pieni di odio per questa predilezione paterna di cui gode Giuseppe, essi lo vendono e se ne sbarazzano macchiandosi così di un terribile delitto: il rifiuto della fratellanza. Ma in Egitto Giuseppe viene notato dai dignitari di corte del faraone e, attraverso una serie di vicende alterne, arriva davanti al faraone che non resiste di fronte alla sua sapienza. Divenuto maggiordomo reale a capo di tutto il paese d’Egitto, lo salva da una terribile carestia che flagella invece tutti i paesi vicini. Ed è a causa di questa carestia che i suoi fratelli scendono nel paese dei faraoni per cercare cibo e così lo incontrano. Giuseppe li riconosce, loro no. A questo punto c’è il brano di Gen 44,1-17 dove si narra il piano che Giuseppe ha escogitato con sapienza perché si possa ricostruire la fratellanza con i suoi fratelli nel modo più pieno, certamente non facendo finta di niente. Alla richiesta del “Signore d’Egitto” di lasciare il figlio minore di Giacobbe, Beniamino, in Egitto, Giuda – preoccupato della reazione dolorosa che Giacobbe avrebbe se non ritornasse a lui il figlio – fa un discorso molto bello e significativo che mette in luce la maturazione raggiunta dai fratelli di Giuseppe. Qui i fratelli, attraverso Giuda, comprendono che non possono tornare al loro padre Giacobbe se non sono tutti insieme. Giuda vuole rimanere al posto di Beniamino. Le parole e l’offerta di Giuda ci dicono prima di tutto che la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro e non possiamo tornare davanti al volto del Padre se non siamo insieme.
Vediamo a fondo la storia.

Uno degli ultimi libri dell’A.T., quello della Sapienza, composto alle soglie dell’Era cristiana, così riassume la storia di Giuseppe, in cui ora stiamo per addentrarci:
“Essa [la Sapienza] non abbandonò il giusto venduto, ma lo preservò dal peccato. Scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene, finché gli procurò uno scettro regale e potere sui propri avversari, smascherò come mendaci i suoi accusatori e gli diede una gloria eterna.” (Sap 10, 13-14).
Questa storia è molto unitaria e quasi a se stante, elaborata forse all’epoca di Salomone (X sec. a.C.) e ripresa dalle varie tradizioni che l’hanno riportata, però conservata nella sua perfetta bellezza.
La figura di Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe e Rachele (Gen. 30, 22-24), ha i tratti caratteristici del sapiente secondo l’antico Oriente: sa interpretare i sogni, è dotato di timore di Dio (42,18), perdona il male ricevuto, rifugge dalla tentazione della donna straniera, è un ottimo politico. Gli studiosi sono convinti che la storia sia esistita come una specie di parabola esemplare, per illustrare la figura del vero sapiente e poi sia stata applicata a Giuseppe con l’inserzione di molti elementi specifici riguardanti l’Egitto. Si preparava, così, un ponte di collegamento col libro successivo: l’Esodo, che vedeva gli Ebrei ormai stanziati in Egitto.
La storia inizia con il soggiorno di Giacobbe a Ebron (Gen 35, 27-29) la terra dove suo padre, Isacco, aveva dimorato. Tutto comincia con la rivelazione di due sogni (i dodici covoni e le dodici stelle), che hanno la funzione di esaltare la figura di Giuseppe sopra quella dei fratelli. E’ noto che il “sogno” è considerato nella Bibbia non tanto come un fenomeno naturale, cioè legato alla coscienza e all’inconscio, quanto piuttosto come una rivelazione divina. Si ha quindi un’anticipazione del destino futuro di Giuseppe.
Ancora una volta scatta la tensione tra fratelli (si ricordino le storie di Isacco e Ismaele, Giacobbe ed Esaù). Essa raggiunge il suo vertice proprio nel celebre episodio della vendita di Giuseppe, come schiavo.
Giuseppe sta cercando i fratelli su incarico del padre, Giacobbe, e li incrocia a Dotan a dodici miglia da Sichem. Qui scatta la decisione unanime di uccidere Giuseppe, ma Ruben propone e ottiene dai fratelli di calarlo in una cisterna. Avrebbe pensato lui a farlo riemergere.
Ora Giuseppe è davanti ai suoi fratelli, con la sua “tunica dalle lunghe maniche” (in ebraico “ketonet”), regalatagli dal padre; essa era simbolo di distinzione e di grande dignità. Era un abito che scendeva fino ai piedi e contraddistingueva i principi e le principesse (2Sam. 13, 18-19). Gli altri fratelli di Giuseppe, dediti alla cura del gregge e alle attività spicciole di ogni giorno, indossavano una tunica corta e senza maniche.
La cattiva fama dei pastori (cui allude il v.2) si riferisce alla loro tipica condizione di pastori. I contadini li ritenevano briganti perché spesso sconfinavano col gregge nei campi coltivati, rovinando il raccolto. Nell’ambito sacrale erano poi considerati “impuri”, perché avevano a che fare con il bestiame che, nell’A.T., rendeva impuro e non idonei ufficialmente al culto e alla preghiera.
I fratelli di Giuseppe, negandogli il saluto, (in Oriente aveva una grande importanza; esso comprendeva gesti come alzarsi in piedi, scendere da cavallo, baciarsi, prostrarsi, abbracciarsi; e parole soprattutto col termine “shalom”= “pace”; negare il saluto, come fanno i fratelli di Giuseppe, significava la rottura di ogni rapporto) lo afferrano e lo gettano, secondo il consiglio di Ruben, in una cisterna vuota. Le cisterne erano destinate a raccogliere l’acqua piovana e venivano scavate in ogni terreno, anche nel deserto. Nel periodo estivo esse erano di solito asciutte e potevano prestarsi ad altri usi. L’uso della cisterna come prigione, oltre che in questo episodio, si trova anche in Ger 38,6 dove il profeta vi fu calato per ordine del Re. All’orizzonte appare una carovana di Ismaeliti (tribù araba discendente di Ismaele), carica di “gomma” (era un prodotto della resina di adragante: gomma che trasuda da alcuni alberi dell’Asia, veniva usata in Egitto per far aderire le bende delle mummie), di “balsamo” (sostanza resinosa odorifera che stilla da alcune piante tropicali, veniva usata come profumo e come medicamento; dalla sua resina si produceva anche l’incenso) e di “resina” (prodotto vischioso con proprietà plastiche, in realtà era un prodotto del “laudano”: medicinale a base d’oppio, usato in Egitto come cosmetico e medicinale). La carovana era diretta dalla regione di Galaad (in Transgiordania) verso l’Egitto. Entra in scena Giuda, figlio di Lia (29,35) che ripropone il salvataggio del fratello, così come aveva fatto Ruben. Giuda suggerisce la vendita del fratello come schiavo a quei mercanti.
A prendere le difese di Giuseppe sono Ruben e Giuda, suoi fratelli. Probabilmente abbiamo qui l’intreccio di due diverse tradizioni: Eloista e Jahwista. La prima, formatasi nei territori delle tribù del Nord, privilegia Ruben, loro eroe. La seconda (Iawhista), sorta nel territorio del Sud, privilegia Giuda. Bisogna però notare che Ruben è il primogenito ed è in questa veste che interviene. Le due stesse tradizioni si intrecciano nel presentare la differente identità dei mercanti ai quali viene venduto Giuseppe. La tradizione Eloista accenna ai Madianiti (popolazione nomadica che la Genesi collega ad Abramo e alla seconda moglie Chetura: Gen. 25,2), quella Iahwista agli Ismaeliti.

 

L’autore biblico descrive il dolore di Giacobbe alla finta morte di Giuseppe con i tradizionali riti orientali del lutto: stracciarsi le vesti, legarsi il cilicio ai fianchi, lamentarsi e gridare.
L’obiettivo ora si sposta da Giuseppe che è venduto come schiavo a un alto funzionario egiziano, l’ ”eunuco” del faraone, Potifar, a una vicenda particolare che riguarda Giuda, uno dei figli di Giacobbe. Col termine “eunuco” si indicava un uomo sessualmente impotente, che, perciò, veniva incaricato di custodire l’abitazione delle donne nel palazzo reale (harem). Nel linguaggio biblico assume anche il significato di “maggiordomo” o uomo di fiducia, al quale venivano affidati alti incarichi (2 Re 25,19). Riferito a Potifar, di cui sappiamo che era sposato, il termine probabilmente va inteso in questo secondo senso.

Non conosco una figura di Cristo più bella e più perfetta di quella di Giuseppe, sia che lo consideriamo come l'oggetto dell'amore del padre, dell'odio dei “suoi”, o nella sua umiliazione, nella sofferenza e nella morte, o nella sua esaltazione e nella gloria.
Conosciamo i sogni di Giuseppe che risvegliarono l'odio dei suoi fratelli. Giuseppe era l'oggetto dell'amore del padre, era chiamato a un destino glorioso, e poiché il cuore dei fratelli non era in comunione con quello del padre ed era estraneo a tutto ciò che attendeva Giuseppe, essi lo odiavano. Non condividevano l'amore del padre per Giuseppe e non volevano sottomettersi al pensiero che egli dovesse essere innalzato. In questo, i fratelli di Giuseppe rappresentano quelli che non hanno accolto Gesù come Figlio di Dio. “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11); “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto” (Is 53,2). I loro occhi non erano aperti per contemplare “…la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”  (Gv 1,14).
Ma Giuseppe, sebbene non fosse ricevuto dai suoi fratelli, rimane fermo nella propria testimonianza. “Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più” (Gen 37,5). Non faceva altro che rendere una semplice testimonianza, basata su una rivelazione divina, ma che lo avrebbe fatto scendere nella cisterna. Se avesse taciuto, se avesse lasciato smussarsi il filo tagliente e la potenza della sua testimonianza, sarebbe stato risparmiato, senza dubbio: ma egli dice ai suoi fratelli tutta la verità e perciò l'odiarono.
La testimonianza di Cristo era connessa alla gloria più piena, più ricca, più perfetta. Venne non solo come “la verità” ma anche come l'espressione perfetta di tutto l'amore del cuore del Padre. “…la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). La croce e la cisterna si assomigliano!
“Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero” (Mt 21,37-39). La terra e il cielo erano, e sono tuttora, divisi e opposti a causa di Cristo; l'uomo l'ha crocifisso, ma Dio l'ha risuscitato dai morti; l'uomo l'ha posto su una croce fra due ladroni, Dio l'ha fatto sedere alla propria destra nei cieli; l'uomo gli ha assegnato l'ultimo posto sulla terra, Dio gli ha offerto la posizione più elevata nei cieli e l'ha rivestito della più splendida maestà.

In questo primo scorcio di narrazione si possono già sottolineare alcune tematiche bibliche a cui potremmo associare gli spunti di riflessione.

Ø Anzitutto l’attenzione e predilezione riservata ai “piccoli”. In tale condizione si è svolta la vita dei patriarchi. In tale stato di povertà hanno sofferto le loro mogli, perché sterili, ma poi benedette da Dio con la maternità. Si potrebbero ricordare tanti altri episodi biblici, fino ad arrivare al Cristo e alla sua logica degli “ultimi che saranno i primi”, e del Figlio di Dio che si è fatto l’ultimo tra i figli degli uomini.

Sono capace non solo di stare all’ultimo posto, ma di volerlo, cercarlo ed accettarlo? Ho il coraggio di opporre alla mentalità dell’apparenza di questo mondo una testimonianza di vita umile ed abbandonata a Dio?
 

Ø Un altro interesse è rivolto ai “sogni”, quelli di Giuseppe, dei ministri e del faraone stesso. Tutti rientrano nel più vasto “sogno”, o meglio “progetto” di Dio, che lentamente si va realizzando nella storia degli uomini. Le contraddizioni della vita lo fanno apparire una cosa assurda e consigliano la sana prudenza di stare coi piedi per terra. Ma alla fine esso si realizza. Per questo, occorre saper discernere il vero dall’illusorio e fallace. Solo Dio può illuminare le menti e rinvigorire le membra per giungere senza cedimenti alla fine dell’avventura.

Sono capace di grandi “sogni” o mi perdo nei piccoli capricci della vita quotidiana? Partecipo attivamente al grande “sogno” di Dio: vedere l’umanità intera redenta da Cristo, suo Figlio?
 

Ø Infine bisogna volgere la sguardo anche alla vicenda umana di Giuseppe, nella quale il giusto si trova a contatto con “la prova”. Sono le prove ingiustificate dell’odio, anche quello dei più vicini; le prove che derivano dalla fedeltà alla legge divina; le prove di sentirsi ignorati proprio da coloro a cui si è fatto del bene; le prove di non rimanere indifferenti al male e alle sofferenze del mondo. Accanto ad esse si nota sempre, a volte inaspettatamente, l’intervento soprannaturale che rende vano ogni attentato contro chi è saldo in Dio. Che la sofferenza sia inseparabile dalla persona di Giuseppe, è testimoniato infine nei nomi dei figli, nati a lui in Egitto: Manasse “Dio mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e la casa di mio padre” ed Efraim “Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione”.

La prova, se vissuta nella fede, è sempre un momento di grazia: riesco a vivere la prova nella certezza che Dio non mi abbandona mai totalmente nelle mani del Tentatore?
 

CERCO I MIEI FRATELLI

È fondamentale per un cristiano la preoccupazione di cercare i suoi fratelli e le sue sorelle! Ci sono minoranze che gridano giustizia e ciò che è in nostro potere di fare, va fatto. Ma c’è una maggioranza silenziosa, anonima della quale non sappiamo neppure quale sia il pensiero e che forse neppure lei sa quanto bisogno di Dio ha! Questo cercare il proprio fratello fa parte di quella logica pasquale dentro la quale si è mosso il Figlio di Dio nel suo donarsi a noi. E tale logica siamo invitati a farla nostra… Perché diciamo che non possiamo fare gruppi d’élite nonostante a tratti la tentazione sia forte? Perché Gesù, investendo sempre in perdita, prima di tutto si è preoccupato di ricercare noi e non altri. Ecco allora che per un cristiano ricercare i fratelli significa andare per le strade del mondo e comprendere che l’umanità è come una catena: qualsiasi persona, in qualsiasi situazione si trovi, è mio fratello. I Kosovari sono miei fratelli… gli albanesi sono miei fratelli… ma anche Milosevic è mio fratello… anche i fondamentalisti musulmani sono miei fratelli… e anche con loro sono chiamato a fare il mio cammino di ritorno al Padre. Ecco perché il papa insiste tanto sul dialogo oltre ogni speranza!
C’è il rischio sempre presente di ridurre questa ricerca ad un imperativo morale: devo aiutare i Kosovari perché stanno peggio di me… e intanto la coscienza tace. No. Dobbiamo scavare a fondo e trovare le vere motivazioni, i veri valori, la vera sorgente dell’aiutarci a vicenda. Se lo lasciamo solo un imperativo morale, quando la strada si farà buia, rischierà di scomparire e noi di rinchiuderci dentro se stessi.

Un paio di anni fa, circa, nel marzo 1994, incontravo Christian nel Monastero di Timadeuc. Gli dissi: “L’Ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci”. Mi ascoltò e rimase in silenzio. Poi mi guardò e mi disse: “Non c’è opposizione…” Oggi gli do completamente ragione: monaci e martiri. L’Ordine, la Chiesa, il mondo, tutti abbiamo bisogno di testimoni fedeli che parlino con parole di sangue dalla sorgente insondabile del primo Amore. Abbiamo bisogno di seguaci di Gesù, pronti a seguirlo fino alla fine, pronti ad abbracciare la croce del perdono che libera e salva. Dio ci ha regalato tutto questo nella persona dei nostri Fratelli.
Solo per seguire Gesù fino ad entrare nella tenerezza della misericordia del Padre, i nostri Fratelli desideravano vivere una fraternità fino all’estremo. Per questo parlavano dei “nostri fratelli della montagna” e dei “nostri fratelli della pianura”, quando si riferivano ai terroristi e alle forze armate che combattevano attorno a loro. Per questo, quando giunse l’ora, possiamo credere che abbiano avuto quell’attimo di lucidità che permise loro di chiedere perdono a Dio e ai loro fratelli in umanità, perdonando allo stesso tempo, con tutto il cuore, coloro che li uccidevano, anche per i quali avevano offerto le loro vite.

La vita e la morte dei sette monaci trappisti di Notre Dame de l’Atlas ci dicono che la premura verso il fratello nasce dall’Amore del Padre e si esprime nella consapevolezza di essere noi per primi quelli che hanno bisogno del perdono e della salvezza di Dio. Nel momento in cui ci rendiamo conto di questo non possiamo più fare a meno di andare incontro al fratello, qualunque esso sia. Ho portato l’esempio dei Kosovari, ma restringendo il cerchio vorrei che vedessimo in quest’ottica di fede le nostre attività pastorali a volte così indovinate, a volte invece fallimentari fin dall’inizio. Qualunque sia il loro esito, noi siamo chiamati a guardarle come espressione della fratellanza. Il nostro andare incontro al fratello è espressione dell’amore del Padre che ci chiama a compiere il nostro cammino di ritorno a Lui insieme. Vivendo la logica pasquale. Cosa vuol dire concretamente? Vuol dire sentire il dolore per l’assenza del fratello come una crocifissione! Pensiamo all’amaro in bocca che sentiamo quando vediamo i gruppi sempre più disertati, il poco sostegno… ringraziamo il Signore se sentiamo ciò! È uno dei segni che dicono la nostra sincera partecipazione all’annuncio del Regno e che il nostro cuore batte anche per i fratelli! Al contrario della tentazione di mollare, nella preghiera dobbiamo chiedere al Signore il dono di una fede più matura, che non crolla. Non chiediamo di saper gestire sempre al meglio la situazione e il nostro servizio pastorale… chiediamo piuttosto la sicurezza che viene dalla fede di credere che il mio fratello è davvero indispensabile nella mia vita. Si sta male, lo so. Si sta male per le troppe situazioni di disagio e di ingiustizia che ci sono intorno a noi. E che dire? Non siamo stati inviati a salvare il mondo… siamo stati inviati ad annunciare la lieta novella. Dio lo ha già salvato questo tempo. Noi siamo nel “già e non ancora” ossia Gesù con la sua croce ci ha già uniti ma noi nella storia dobbiamo rivelare ancora questa verità e di questo compito non dobbiamo mai stancarci. Evitiamo di nascondere la nostra incapacità a stare nel dolore con il desiderio di far qualcosa. Già accettando che ci sia la situazione di sofferenza collaboriamo alla salvezza: per lo meno non poniamo ostacoli. La storia di Giuseppe ce lo ricorda: attraverso gli eventi dolorosi dei dieci figli di Giacobbe ecco che una nuova primavera di amore sboccia fra i fratelli: l’amore del loro padre non è andato perduto!

La meditazione non è fine a se stessa, ma tende a farmi entrare in dialogo con Gesù, a diventare preghiera.
 

 

ORATIO      Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare. Se sei in difficoltà, puoi pregare così:

Liberami, Gesù, dal desiderio di essere amato,
dal desiderio di essere magnificato,
dal desiderio di essere onorato,
dal desiderio di essere elogiato,
dal desiderio di essere preferito,
dal desiderio di essere consultato,
dal desiderio di essere approvato,
dal desiderio di essere famoso,
dal timore di essere umiliato,
dal timore di essere disdegnato,
dal timore di subire rimproveri,
dal timore di essere calunniato,
dal timore di essere dimenticato,
dal timore di subire dei torti,
dal timore di essere messo in ridicolo,
dal timore di essere sospettato.

(Madre Teresa di Calcutta).


 
CONTEMPLATIO      Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarsi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.
 

È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!
 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo
a te, Dio Padre Onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.

 
ACTIO       Mi impegno a vivere un versetto di questo brano, quello che mi ha colpito di più nella meditatio, che ho ripetuto nell’oratio, che ho vissuto come adorazione e preghiera silenziosa nella contemplatio e adesso vivo nell’actio.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!
 

Prego con la Liturgia della Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!