RITIRO ON LINE                                                                                                   
settembre 2018

                                                                                                                                                                                                                                                

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.   Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi. 

 

Guarda, rispondimi, Signore, mio Dio,

conserva la luce ai miei occhi,

perché non mi sorprenda il sonno della morte,

perché il mio nemico non dica:

«L’ho vinto!»

e non esultino i miei avversari

se io vacillo.

 

 Ma io nella tua fedeltà ho confidato;

 

esulterà il mio cuore nella tua

 

 salvezza,

canterò al Signore, che mi

 

ha beneficato.

 

 

(dal Salmo 13)

 

Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.

 

 

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Le ore del giorno scorrono rapide. Impossibile fermarle.

Il credente però le può «redimere».

 

Continuano le lectio liberamente tratte da alcune riflessioni di don Davide Caldirola, sacerdote della Chiesa di Milano.

Buona meditazione e buona preghiera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LECTIO Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano che mi viene proposto.  (Matteo 26,36-46)

 

36Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». 37E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. 38E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». 39Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». 40Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? 41Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». 42Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». 43Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. 44Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. 45Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. 46Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEDITATIO   Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: il grande silenzio !  Il protagonista è lo Spirito Santo.

 Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso "cuore".

 

 

“Un’ora sola con me: l'ora della stanchezza

 

 

Dalla parte dei discepoli

Tutte le giornate, prima o poi arrivano a sera. Spesso è un momento difficile, in cui si mescolano la stanchezza del giorno, con le sue delusioni e le sue gioie, e un'incipiente paura della notte e del buio, delle cose che finiscono e che vanno a morire. Non sempre le sere della nostra vita conservano il fascino di meravigliosi tramonti, in cui ci si perde nella bellezza delle sfumature e dei colori. Ci sono - è vero - serate così, di una bellezza impossibile da sostenere e da contenere, cariche di riconoscenza e di meraviglia. «Giorni da incorniciare», si usava dire. Ma altre volte non c'è neppure il tempo di guardare il cielo, a volte il cielo stesso non si lascia vedere, nascosto dalla pioggia, dalle nubi, dalla nostra stessa tristezza. E allora la sera regala rimpianti, e il chiudersi di una giornata deposita nel cuore un soffio d'ansia sottile, qualche domanda irrisolta, un rigagnolo di paura.

 In questa riflessione vogliamo entrare nell'ultima sera di Gesù, nel passaggio dalla sera alla notte che si consuma nella veglia al Getsemani. Solitamente si commenta questo brano a partire da Gesù, guardando a lui, come è giusto che sia. È lui il protagonista vero e su di lui dobbiamo porre l'attenzione. Ma forse abbiamo bisogno di lasciar cadere il nostro sguardo anche sui discepoli, indegni comprimari di questa scena struggente e dolorosa di lotta e di consegna. Quella che per Gesù è l'ora della Passione, della preghiera e dell'abbandono, per il discepolo è l'ora del disorientamento, della tristezza e della stanchezza.

 

Ciò che sta prima

Per rileggere con maggiore profondità il brano evangelico che abbiamo letto, c'è bisogno di ricostruirne il contesto immediato, «ciò che sta prima» della lotta di Gesù e del sonno dei discepoli. La scena è quella della cena pasquale. Per gli apostoli è un momento emotivamente forte, segnato dalle parole sul tradimento, dall'intimità creata da Gesù, dal dono inaspettato e sicuramente incompreso del pane e del vino.

 20Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. 21Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». 22Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». 23Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. 24Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». 25Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».

26Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». 27Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, 28perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. 29Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio».

30Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 31Allora Gesù disse loro: «Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti:

Percuoterò il pastore

e saranno disperse le pecore del gregge.

32Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». 33Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai». 34Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». 35Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dissero tutti i discepoli.

 (Mt 26,20-35).

Analizziamo

Nel v. 22 Matteo descrive due atteggiamenti, due reazioni dei discepoli all'annuncio del tradimento. Anzitutto il loro smarrimento. «Sono forse io?», si domandano. Ci riconosciamo in questa insicurezza, in questa paura di essere noi, proprio noi, quelli che volteranno la spalle e scapperanno. «Sono forse io?». Com'è più vera, com'è più reale una domanda così rispetto alla baldante sicurezza di chi dice poco dopo, magari galvanizzato da un bicchiere di vino o da un'orgogliosa imprudenza: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò».

Questa domanda rimane per sempre tra i grandi interrogativi che la Scrittura ci consegna. Non domande oziose, cavillose, per accademici pedanti. Domande di carne e di sangue, questioni di vita o di morte. «Sono forse io?». Che vuol dire anche «chi sono io?», chi sono davvero, al di là del mio dire e del mio fare. La rivelazione del tradimento lascia il segno sui discepoli, smaschera la loro apparente sicurezza, pone la questione della loro identità. È con tutto questo groviglio nel cuore che raggiungono l'orto del Getsemani, di lì a poco.

 La seconda reazione che Matteo ci segnala è il loro essere «profondamente rattristati». È un dolore vero, una ferita reale. Perché i discepoli vogliono bene a Gesù. A modo loro, in mezzo ai loro limiti e alla loro assoluta incapacità a comprendere, amano quest'uomo a cui sono andati dietro, di cui si sono fidati. Adesso che gli annunci della Passione (cf Mt 16,23; 17,22; 20,17) sembrano purtroppo materializzarsi e avverarsi, tirano fuori tutto il loro dispiacere. È un dolore vero, reale, che tuttavia non riuscirà a impedire loro di trovarsi al momento opportuno dalla parte sbagliata, tra coloro che fuggono e tradiscono anziché tra coloro che stanno a fianco del Cristo che muore.

Il quadro emotivo dei discepoli è quindi profondamente scosso nel momento in cui entrano nell'orto del Getsemani. Tristezza, confusione, angoscia, paura. Anche loro vivono tutto questo, insieme a una grande stanchezza, a una spossatezza infinita.

 A tutto questo stato d'animo avrà contribuito non poco un dettaglio che i sinottici ci riportano: hanno cantato insieme; “dopo aver cantato l’inno. Un canto che poteva chiudere la serata in bellezza, e consegnarla al riposo della notte. Ma non è stato così.

Probabilmente erano voci senza grazia. Forse c'è chi ha cantato di gusto, chi s'è commosso, chi a metà di una strofa ha piantato lì perché aveva il magone, un groppo in gola, perché capiva che era l'ultima volta. E chi ha tirato fuori tutto il fiato senza risparmio, perché aveva paura. Forse si guardavano negli occhi; forse insieme guardavano il Maestro. Lo guardavano senza vederlo, senza capirlo, con un presentimento strano e  un'ombra  di  morte nel cuore.

Anche a noi capita, a volte, di cantare così. Siamo gente che nella vita (e “con” la vita) prova a intonare qualcosa, a seguire il filo di una canzone, a riprendere la melodia tra stecche e dissonanze, a fare i conti con la voce che non è più quella di una volta. Gente che canta in mezzo alla fatica, con la forza, soltanto, del pane appena mangiato, il pane dell'amicizia, il pane del perdono.

 Che cosa avranno cantato i discepoli con una voce così? Roba antica, vecchia di secoli. Era l'inno di Pasqua. Le stesse parole, la stessa musica di generazioni di Ebrei, modulata e ripetuta da migliaia di uomini prima di loro, forse con più fede, di certo con talento maggiore. Non era il momento di inventare cose nuove, ma di aggrapparsi a quelle vere.

Dopo una manciata di secoli, quell'inno pasquale al Cenacolo è l'unico canto che resta di tutta la Passione di Cristo. Poi sarà il tempo delle accuse e dei rumori di spade, degli interrogatori, dei silenzi e delle grida. Sarà il tempo di tradimenti e spergiuri, dei crucifige e delle urla di dolore, dei colpi dei chiodi nella carne e nel legno. Nessuna melodia, nessun ritornello fino al silenzio del sabato e all'Alleluia pasquale. Ci voleva un inno di gioia nella memoria e nel cuore per attraversare il buio della notte, per vincere l'angoscia e la paura. Forse era proprio per questo che avevano cantato. Non solo perché si usava, perché lo voleva il rito. Avevano bisogno di cantare insieme per farsi coraggio, come fanno i bambini. Come facciamo tutti quando siamo al buio, e ci facciamo compagnia con un grappolo di note, per non sentirci soli.

Uno cammina al buio, tra rimorsi e cadute, e si attacca alle parole della fede. Parole che magari non ha capito tanto, ma che ha imparato a cantare, che vengono su dal cuore, che non comunicano informazioni, non dicono niente di speciale, ma scaldano, riempiono, danno fiato, e creano in mezzo all'affanno lo spazio di un respiro quieto. Tutto molto bello. Eppure i discepoli - anche in ragione di questo canto - sono ancora più scossi, ancora più turbati.

E il loro cuore è pieno di domande, che aumentano la confusione. Cosa sta succedendo? Perché ci porta fuori? Perché la nostra serata non finisce così? Dove è andato Giuda? Cosa significavano le parole che ci ha detto? I discepoli vivono un ulteriore momento di smarrimento emotivo, di disorientamento, di stanchezza fisica. Una sera decisamente eccessiva, troppo difficile per poterla portare, per provare a comprenderla.

 

Prese con sé

Da questo gruppetto di apostoli smarriti, Gesù sceglie e prende con sé tre testimoni privilegiati: “E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo… Non è la prima volta che il Signore designa Pietro, Giacomo e Giovanni per renderli partecipi più da vicino di un segreto, di una rivelazione. Tutte le volte che li porta con sé in disparte capita qualcosa di straordinario: basti pensare, ad esempio, all'episodio della Trasfigurazione (Mt 17,1-8) o, nella versione di Marco, alla risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,37-43). Qui, come nelle altre occasioni, i tre non sono preparati. Non reggono il peso di un passo ulteriore. Forse avrebbero desiderato restare con gli altri, in disparte, distanti.. Forse hanno pensato: stavolta ci sta chiedendo troppo.

Oltre tutto devono ascoltare una parola difficile se non impossibile da reggere: «La mia anima è triste fino alla morte». Questa è la prima parola che Gesù dice loro, prima ancora della raccomandazione a vegliare e restare. È un momento di consegna e insieme di grande confidenza, di assoluta fiducia da parte di Gesù nei loro confronti. Non si dicono cose così al primo che capita, non in questo modo. I tre sono stati scelti come depositari del segreto del cuore di Gesù, entrano in una intimità inedita, imprevedibile, ricchissima. E la loro reazione è del tutto insignificante. Durante la cena, all'annunzio del tradimento avevano reclamato, si erano addolorati. Qui non sono già più in grado di reagire. Restano muti e fermi.

 I tre discepoli, rispetto ai loro compagni, ricevono una consegna differente. Agli altri era stato chiesto soltanto di sedersi, di rimanere: “ e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare» “(cf 26,36). A loro viene chiesto, per ora, di «restare e vegliare» “restate qui e vegliate con me (v. 38). Solo in un secondo momento Gesù aggiungerà la raccomandazione di vegliare pregando: “Vegliate e pregate “(v. 40). Per ora non glielo chiede neppure: si accontenta che stiano vicini a lui e che non si addormentino. È stato fatto giustamente notare che questa consegna rappresenta un modello per l'esistenza cristiana, ciò che deve fare un uomo di fede. Vero. Ma in realtà questo è esattamente ciò che viene chiesto quando uno sta per morire, e non c'è più niente da fare. Si resta, si veglia, se si riesce si prega. Si sta in silenzio senza poter operare nulla, pronti soltanto a tenere una mano sul capo, a regalare un pallido sorriso, un conforto muto, un impercettibile segnale di bene. Ai tre discepoli vien chiesto di voler bene a un fratello che se ne sta andando, e di regalare questo bene col silenzioso linguaggio di un'orazione dolente e composta, con le parole smozzicate della preghiera, che quasi mai viene bene negli istanti decisivi, che prende a prestito le parole di un altro, o il disperato grido di chi non sa più cosa dire.

Matteo annota (v. 40), in accordo anche con la testimonianza di Marco (14,37), che quando Gesù ritorna dai discepoli la prima volta si rivolge non a tutti e tre ma soltanto a Pietro: “Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?  “ Pietro era quello che durante la cena si era esposto di più, facendosi carico generosamente anche degli altri, anzi vantandosi un po' rispetto a loro e trascinandoseli dietro nell'insensata professione di coraggio: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò» (v. 35). Adesso la sua sicurezza comincia a venir meno. È davvero così semplice sostenere il peso della stanchezza, del turbamento, dell'emozione, dell'incomprensione? Di fronte alle parole di Gesù, da parte di Pietro non c'è nessuna risposta, nemmeno il tentativo di scusarsi. Anche lui - la roccia, l'uomo generoso e sicuro - è preso da una stanchezza mortale.

 

Occhi pesanti e tristezza

I sinottici ci regalano due annotazioni differenti riguardo alle ragioni del sonno dei tre discepoli. Marco e Matteo dicono che i discepoli dormono perché i loro occhi si sono appesantiti, sono affaticati : “ Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. “(cfMc 14,40 e Mt 26,43). Marco aggiunge anche «e non sapevano cosa rispondergli», evidenziando il loro imbarazzo: sono stati sorpresi, smascherati nella loro fragilità, non possono accampare scuse. Ma c'è di più: nel momento in cui stanno perdendo la Parola, Gesù Parola del Padre, perdono anche le parole da dire, non sanno più come esprimersi. Se Gesù tace anche loro diventano muti.

 Occhio pesante, dunque, occhio affaticato. C'è una prima ragione, semplicissima, per questa pesantezza. I discepoli devono guardare al buio, perché è venuta meno la luce. Non si tratta tanto della luce del sole (la sera ormai sta sconfinando nella notte piena), quanto della luce che è Gesù. Sta venendo meno lui: si spegne la luce. «Poi viene la tenebra quando più nessuno può operare» (Gv 9,4). Senza lo sguardo di Gesù il discepolo è cieco, incapace di distinguere le forme, le cose, i colori. Invano si sforza di scrutare nella tenebra: l'unica cosa che ottiene è di ritrovarsi con un occhio affaticato, appesantito.

 C'è un'altra ragione per cui gli occhi degli apostoli sono pesanti: non sono abituati a vedere Gesù così. Contemplano uno spettacolo inedito, quello di un Maestro sfiduciato, rattristato fino alla morte:  La mia anima è triste fino alla morte “. Non credono ai loro occhi, non possono accettare di vederlo così. Non riescono più a definirne i contorni, non sembra a loro la stessa persona che li ha chiamati, che ha operato miracoli, che ha guarito, che li ha condotti a Gerusalemme.

Ancora: tutto è troppo per loro in questo momento. Sono istanti esagerati, eccessivi, potremmo dire, con un'immagine un po' ardita, di «tenebra abbagliante». Questo buio in cui sta sprofondando il Figlio dell'uomo li ferisce come se fosse una luce troppo vivida, troppo intensa, davanti alla quale ci si scherma lo sguardo con le mani, o più semplicemente si chiudono gli occhi perché non ne restino bruciati. Lo sguardo si appesantisce non solo per la stanchezza e l'emozione di una giornata che lascia senza forze, ma per una sorta di difesa naturale di fronte a una tenebra che inghiotte e fa paura.

L'evangelista Luca ha un'annotazione differente da Matteo e Marco quando ci dice che i discepoli dormivano «per la tristezza» (Lc 22,45). Non vogliono più vedere, vogliono dimenticare. Si «rifugiano» nel sonno, non «cadono» nel sonno . Scappano dormendo, vivono un momento di profonda depressione.

 Il sonno, a volte, è una via di fuga. Ci si rintana nel dormire per non dovere fare i conti con la realtà: una realtà problematica, complessa, dura da accogliere. I discepoli sono stanchi per la tristezza di «non farcela più», perché si sentono sconfitti, perché i problemi sono più grandi di loro, perché hanno tentato troppe volte senza mai riuscire. Ma il Signore non ha chiesto loro di essere in grado di saper sciogliere tutti i problemi della vita. Ha chiesto soltanto di «vegliare un'ora con lui»: “Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? “.

C'è di più. Spesso ci si addormenta perché non si hanno più forze. Non è solo una questione di stanchezza. È che forse non ci si è nutriti abbastanza... Forse il sonno in cui i discepoli sprofondano è molto simile al sonno di chi è stato costretto ad abbandonare la corsa per non essersi nutrito abbastanza, o si è nutrito male. Chi vuole imparare a vigilare, deve domandarsi  sempre di che cosa si sta cibando per non essere travolto dal sonno di chi non ha più energie. Forse anche i discepoli vogliono morire, come è capitato al profeta Elia (cf 1Re 19). Neppure loro sono migliori dei loro padri; anche loro hanno bisogno di cibo, di sostegno. Ed è terribile, a pensarci: avevano appena ricevuto il pane e il vino, nell'Ultima Cena.

Che sia tristezza o occhio pesante, rimane il fatto che i discepoli «non sono stati capaci di vegliare un'ora sola con lui». Non dovevano fare altro, solo tenere gli occhi aperti, stare svegli. Hanno mancato l'ora decisiva, l'appuntamento in cui avrebbero potuto ricevere segreti, regali, rivelazioni da Gesù. Ancora un fallimento, ancora un disastro nel loro cammino accanto al Signore

 

Il finale

Il finale del testo di Matteo: “Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino  “ (vv. 45-46). “Dormite…riposatevi… alzatevi… Andiamo”: sembra consegnarci due comandi contraddittori. O si dorme o si parte, verrebbe da dire. In realtà anche questo alzarsi e andare non coincide con un risveglio dei discepoli. Non dal punto di vista della capacità di riaprire gli occhi ed entrare nel mistero della tristezza angosciosa di Gesù. Ne restano al di fuori, e il loro risveglio coincide con una nuova fuga (v. 56), con l'abbandono definitivo. In realtà, gli apostoli sono incapaci di fare sia l'una che

l'altra cosa. Il loro sonno non è stato un riposo ma una fuga, un vero e proprio crollo fisico e spirituale. Il loro andare sarà un disperdersi senza direzione e senza meta, non una strada che si apre, non un sentiero che conduce a una meta. L'ora della stanchezza si è consumata. C'è spazio soltanto per il tradimento e la tenebra.

 

Accanto a un dolore

Un primo approfondimento a questo testo ciascuno può farlo attraverso i ricordi personali che forse ha: il restare impotente accanto a una persona che muore, il rimanere in mezzo alle situazioni di dolore anche quando non c'è più niente da fare, condividendo soltanto con la presenza e il silenzio... Quando l’ammalato cerca il volto e la mano di qualcuno... Essere lì, con la mano pronta ad afferrare la sua, perché non si senta solo, perché aprendo gli occhi veda qualcuno che veglia con lui…

Della “consolazione” dovremmo imparare a parlarne di più, di questo «stare con chi è solo» anche senza potere far nulla, totalmente disarmati, e forse per questo almeno un pochino credibili.

 

Emozioni

Nel giardino del Getsemani i discepoli devono fare i conti non soltanto con la propria stanchezza, ma anche con le proprie fragilità e con le proprie emozioni. Quello delle emozioni è sempre - anche nella vita spirituale - un percorso difficile da decifrare. Tuttavia, come esseri umani e come discepoli, non possiamo non addentrarci in questo sentiero insidioso, irregolare, imprevedibile. La nostra vita è fatta anche di emozioni, e la nostra sensibilità umana non è estranea al nostro percorso di fede. Occorre chiarire però questa parola difficile, «emozione», perché non abbiamo il diritto di confonderla col sentimento vuoto, o con l'esperienza folgorante e momentaneamente appagante che non lascia alcuna traccia reale nel vissuto profondo.

 Scrive il filosofo francese Michel Lacroix:

La nostra vita affettiva soffre di uno squilibrio dovuto a un eccesso di emozioni-shock e a un deficit di emozioni­contemplazione. Nel campo delle emozioni, l'individuo contemporaneo tende a selezionare quelle che gli procurano un massimo di eccitazione. Egli preferisce l'emozione-shock, che è nell'ordine del grido, all'emozione-contemplazione, che è nell'ordine del sospiro. [... ] L'uomo attuale si interessa più alle emozioni di tipo esplosivo che ai sentimenti, i quali hanno un'impronta smorzata e durevole. Accorda più valore alla scarica affettiva che all'espressione lirica, alla trance che all'estasi, all'adrenalina che all'ammirazione. […] L'individuo è in uno stato permanente di eccitazione. Si emoziona molto, ma non sa più sentire. È allo stesso tempo sovreccitato e insensibile.

 

Il sonno

Parlare di sonno non significa soltanto parlare del sonno spirituale o dell'occhio appesantito dei discepoli. Significa anche - in positivo - mettere a fuoco quel giusto riposo che permette di vigilare al momento opportuno. Il Vangelo di Matteo fa notare (cap. 14) che «mentre tutti dormivano» il nemico arriva e semina la zizzania, lasciando intendere che anche il buon padrone del campo si è addormentato. E’ proprio la Scrittura a suggerirci che c'è un sonno buono, un riposo doveroso, in cui il Signore ricolma di bene i suoi amici,che non corrisponde  all'intorpidimento dello Spirito o a un'assenza di vigilanza, ma nasce da un bisogno di riposo profondamente umano, di cui perfino il Signore Gesù ha sentito un'intima necessità. Paradossalmente, la capacità di un credente di vigilare è strettamente connessa alla sua attenzione nel trovare tempi e luoghi di riposo idonei, alla possibilità di dormire e vegliare al momento opportuno.

Una volta si diceva che dorme bene chi ha la coscienza tranquilla. La cosa non è proprio così automatica; eppure c'è del vero. Mi piace quindi leggere questo momento del sonno come il momento in cui mi lascio andare e lascio lavorare Dio, o, più ancora, come il mo­ mento in cui posso finalmente riposare in pace perché qualcuno mi ha perdonato. La tensione che a volte non ci fa dormire non è solo quella del lavoro, ma anche quella che ci conduce ad andare a letto irriconciliati con noi stessi, la nostra famiglia, il mondo. Allora il nostro sonno non è dolce, ma porta con sé il peso di un perdono non avuto o non donato. «Non tramonti il sole sopra la vostra ira», dice Paolo (Ef 4,26).

 

L'ora di veglia

Un pensiero  sull'«ora di veglia» che i discepoli non sono stati in grado di fare. Abbiamo sempre collegato quest'ora di veglia all'«ora di adorazione» che spesso viene proposta e raccomandata nelle nostre chiese e nelle nostre comunità. Un'ora difficile, una preghiera che spesso lascia lo spazio a praterie di distrazioni, a consultazioni nervose  del cronometro, un'ora in cui poco alla volta ci si accorge che non sempre è così semplice fare compagnia a Gesù nel silenzio, senza soffocarlo con le nostre parole e le nostre devozioni.

Che siano un'ora o cinque minuti soltanto, gli istanti del silenzio adorante ci sono dati per fiorire, per illuminare tutto, camminando, dopo che sono passati. Non importa se siano vissuti fuori tra i palazzi brutti di un anonimo quartiere di città, o nel cuore di un giardino buio (come fu per i discepoli). Ciò che conta è il desiderio di stare con lui, di correre a incontrarlo. Oltre la nostra tristezza, e la nostra stanchezza.

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

ORATIO Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

Il mio aiuto viene dal Signore:

egli ha fatto cielo e terra.

Non lascerà vacillare il tuo piede,

non si addormenterà il tuo custode.

Non si addormenterà,

non prenderà sonno

il custode d’Israele.

Il Signore è il tuo custode,

il Signore è la tua ombra

e sta alla tua destra.

 

Il Signore

i custodirà da ogni male:

egli custodirà la tua vita.

Il Signore ti custodirà

quando esci e quando entri,

da ora e per sempre.

(dal Salmo 121)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTEMPLATIO     Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.  È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,  

nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.  Amen

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!  Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!  

 

 

(spunti liberamente tratti da una lectio di don Davide Caldirola, della Chiesa di Milano)

 

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