RITIRO ON LINE
marzo
  2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.

Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi.

  

“Ti porto scolpito nel palmo della mia mano” (Is 49,16).

Ogni volta che tu, o Dio, guardi il palmo della tua mano,

vedi me, e vedi tutta l’umanità.

E’ qualcosa di bello, da ricordare: in ogni istante siamo nelle tue mani.

 (madre Teresa)

 

Veni, Sancte Spiritus

Veni, per Mariam.

 

 

LECTIO     Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano dal Vangelo di Luca  (Lc 15, 11-19)

 

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 

 

Parola di Dio.

 (prima parte)

 

 

 

MEDITATIO                  Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: “Il Grande Silenzio”! Il protagonista è lo Spirito Santo.

Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza.

Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarsi plasmare dal suo stesso "cuore".

 

Entrare in profondità

Spesso accade che, guardandosi nel cuore e pensando a Dio, si provi un disagio difficilmente definibile, come se Dio non fosse contento delle nostre scelte, della nostra vita. Come se si avvertisse una sorta di paura ad apparire davanti a Lui, ad aprirgli i nostri scrigni nascosti, così intimi, personali, dove magari sentiamo anche un certo compiacimento per ciò che viviamo, che pensiamo e che scegliamo nella vita. Sì, alle volte questo disagio ci convince a fermare il nostro pensiero, ad abbassare lo sguardo, a non andare più avanti, a non interrogarci di più, a non alzare i sipari.

La questione fondamentale evidentemente rimane sempre quella dell'immagine di Dio. Quando l'uomo si lascia sorprendere da Dio, in maniera che Dio gli possa rivelare la sua vera immagine, allora e solo allora questo sguardo nel cuore cambia. Quando noi comprenderemo che Dio è la misericordia, l'amore, che Dio è come le viscere materne che fremono per noi, la vita sarà una festa. E guardare nel proprio cuore sarà sempre guardare nella libertà, quella libertà che si sente quando si è a proprio agio, quando si respira l'aria pulita, fresca, come in certe stagioni dell'anno, quando anche il corpo si muove con leggerezza.

Sostiamo un po' davanti alla misericordia e alla bontà del Dio Padre. Soffermiamoci su una parabola che Gesù ha raccontato e che è passata poi come uno dei gioielli della sua narrativa:  la parabola del Figlio prodigo, o meglio dell'Amore misericordioso del Padre, che si trova nel capitolo 15 di Luca. Questo capitolo è il cuore del racconto della misericordia. Il contesto è quello della conoscenza della vera immagine di Dio. Il peccato ha oscurato l'immagine di Dio nell'uomo. L'uomo accoglie l'immagine di un Dio geloso di sé e delle sue cose, di un Dio suo supremo rivale. Anzi, Dio è per lui l'impedimento alla propria realizzazione. L'uomo si trova così lontano da Dio, in una sorta di fuga davanti a Lui, isolato e rivolto a se stesso, convinto di dover fare da solo.

Affiliarsi a Dio gli appare come debolezza, come un anomalo istinto di contraddizione, giacché Dio non è benevolo verso di lui.

 

 Il contesto

Ci sono fondamentalmente due gruppi di peccatori: quelli come comunemente li si intende, le persone che rubano, che fanno del male, che confidano nelle ricchezze, le persone abbandonate alle passioni della propria carne, che si arrabbiano, che bevono, che si picchiano, che uccidono... Sono coloro che troviamo all'inizio del capitolo 15 radunate intorno a Cristo, che si stringono a Lui per ascoltarlo, magari per toccarlo, o anche sfiorare solo il lembo del suo mantello. Questi conoscono la notte del male, la solitudine e la profonda umiliazione che il peccato provoca nell'uomo. I peccatori di questo genere arrivano spesso ad essere esausti del proprio peccato, a non sopportare più neanche se stessi. Se un peccato può essere attraente, stare nel peccato è soffocante. Ogni volta, dopo il peccato, il cuore è più stretto. Si comprende così perché ci sono proprio queste persone intorno a Cristo. Chi sperimenta la notte del peccato attende l'aurora. E Cristo fu chiamato "amico dei peccatori". Lui irrompeva nella loro solitudine, illuminava le loro lunghe notti, mangiava con loro e diceva di essere venuto proprio per loro.

C'è un altro gruppo di peccatori, quelli convinti di non essere tali, che si credono giusti, che non provano un bisogno vitale nel cuore di convertirsi. Sono le persone che si sentono a posto, che si sono impadronite anche di Dio, che lo hanno ridotto ad una sorta di legge, ad un rituale, un'abitudine. Stando alla regola, vivendo secondo il cliché prestabilito, si credono giustificate e si considerano autorizzate a giudicare tutti secondo la loro presunta perfezione. Sono le persone che pensano di essere buone, di essere in comunione con tutti, anche con Dio, ma che in realtà sono assolutamente sole, chiuse nella loro mentalità e nella loro psiche narcisista. Queste persone pensano di governare Dio con la loro bravura. In realtà hanno fatto del proprio egoismo un idolo con un'etichetta religiosa. Non c'è peggior chiusura nell'uomo che quella di una falsa religiosità, quando si persegue la propria volontà, convinti di seguire quella di Dio, quando si osserva una legge fatta da se stessi, ma nella convinzione che è data da Dio, sostenendo magari la propria ipocrisia con dimostrazioni di opportunità, giustifica­zioni razionali, amicizie influenti, persino con pensieri devoti. Sono questo genere di persone coloro che troviamo all'inizio del capitolo 15 di Luca e che, da lontano, mormorano, accusando Cristo di ricevere i peccatori e di mangiare con loro. Ed è a costoro che Cristo rivolge le tre parabole della misericordia.

Vediamo così tratteggiata nei primi due versetti del capitolo la realtà umana segnata dal peccato. In queste due vedute sul peccato si può riconoscere ogni uomo.

 

Approfondimento del testo

“Disse ancora: « Un uomo aveva due figli. »” (v. 11)

Due è il principio della moltitudine, cioè dell'umanità, del genere umano. Ma anche il principio della diversificazione. Nella Bibbia vediamo sempre il principio della diversificazione: due figli (Caino e Abele), due fratelli (Esaù e Giacobbe), due mogli (Agar e Sara). Si intravede, attraverso queste coppie, una certa antinomia, che ci può indurre alle volte ad uno schema di pensare secondo il quale uno sia benedetto e l'altro no, uno libero e l'altro schiavo, uno vivo e l'altro ucciso. Ma nel nostro caso i due figli vogliono dire ancora qualche altra cosa. Ve­diamo, sì, una sorta di diversificazione iniziale — uno parte da casa e l'altro rimane, uno è libertino e l'altro servile —, ma qui l'accento è messo sul fatto che si tratta di un uomo che aveva due figli. Allora, la diversificazione consisterà soprattutto nella via per la quale arriveranno alla comprensione dell'essere figli, quindi alla conoscenza del padre e alla coscienza di essere fratelli. Con questo la parabola vuole subito mettere in evidenza che lo sguardo sulla propria vita dipende dalla percezione che si ha del padre, cioè di Dio. Scoprire l'altro come fratello è possibile solo nello scoprirsi come figli. Chi non conosce il padre, non conosce il fratello. Chi non riconosce il fratelli non scopre il Padre e non sa di essere fìglio.

 L'uomo diventa ciò che è in mezzo agli altri. Fuori dalle relazioni, praticamente non si esiste più. La vita delle relazioni, gli incontri, sono il sapore, il colore e l'essenza stessa del destino umano.

 

“Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta. Ed egli divise tra loro le sue so­stanze” (v. 12)

II figlio più giovane è qui il principio della ribellione e della rivoluzione. La ribellione consiste proprio nel fatto che uno esige per sé, che prende una parte per sé, la strappa dall'insieme e la domina con la propria volontà. L'affermazione unilaterale della propria volontà è il principio della ribellione.   Nella parabola evangelica c'è il figlio più giovane che reclama una parte del mondo solo per sé. Vuole staccarsi dal padre pensando che possa dimenticarsi di essere figlio.

Infatti,  vediamo che il figlio prenderà le sue cose e partirà lontano, sinonimo della ricerca di realizzazione secondo la propria volontà nelle cose e con le cose che gli appartengono. Ma il figlio si può realizzare solo da figlio, cioè in riferimento al padre.

Realizzarsi secondo la propria volontà, nella lontananza dal padre, è proprio la realtà del peccato. Questo desiderio di realizzarsi nel possesso delle sostanze, questa voglia di affermare la propria volontà sul creato corrisponde a ciò che il serpente suggeriva all'orecchio al primo uomo: “sarete come Dio”. Sentirsi creatore significa per l'uomo realizzare arbitrariamente la propria volontà. Dio è Amore. La stessa volontà di Dio è l'Amore. E l'Amore realizzato è la volontà di Dio realizzata. Ma il peccatore che afferma la propria volontà in maniera unilaterale, ribellandosi all'unione con il Padre, già si pone fuori dall'amore. E realizzare la propria volontà significa realizzare se stessi fuori dall'amore. L'amore è comunione, essere orientati all'altro, essere insieme all'altro. Ma il figlio minore si sgancia proprio dall'altro, dall'unione. Perciò realizzerà la propria volontà fuori dall'amore. Di conseguenza, la realizzerà come distruzione. Affermare la propria volontà fuori dall'amore è peccare, cioè morire. Questo significa che le sostanze di cui si appropria non gli gioveranno, non rafforzeranno la sua persona, lui non si realizzerà in esse, ma vi si perderà. Il creato non esiste per essere posseduto. Possedendolo,  già lo si spinge fuori dalla sua verità e dalla sua finalità.

 

“Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto” (v. 13)

Nella parabola si racconta che il figlio minore raccolse le sue cose e partì. Il figlio minore viene preso dalla passione della ribellione e ha fretta di partire.  Qui vediamo proprio la fretta: il figlio, senza un congedo, raccoglie le sue cose e parte.

Ma nella stessa frase si aggiunge che le sperperò in un paese lontano. Infatti, non è possibile per la persona creata raccogliere le sostanze e conformarle secondo l'Amore, se non in riferimento al Creatore. Chi non raccoglie con Lui disperde. Per l'uomo che rinuncia all'amore per autoaffermarsi, non è possibile raccogliere. Alla persona che si impossessa delle sostanze secondo la propria volontà non è possibile raccogliere. Il principio dell'avere, del possedere, non è un principio di comunione e di armonia. Il principio "economico" che in­travediamo nella voglia di possedere secondo la propria volontà non è un principio della comunione. Creare un'unione "economica" è come quadrare il cerchio, significa cioè creare un'unione per modo di dire ed estremamente fragile. L'unione "economica" di regola finisce nella discriminazione, e perciò si dissolve. Le sostanze raccolte in base ad un principio autoaffermativo necessariamente si disperdono, si sperperano.

Nel peccato di Adamo l'uomo, invece di rimanere orientato al suo Creatore, al suo Prototipo, si orienta all'albero, cioè ad un oggetto, e da lui aspetta di diventare come Dio. Adesso, all'inizio di questa parabola, si ripropone la stessa immagine. Il figlio rompe l'armonia relazionale, si orienta alle sostanze, confidando in esse, ponendo in loro tutte le speranze di vivere questa magica attesa di essere padrone.

C'è nell'uomo la passione incontrollabile di essere padrone, di gestire senza far riferimento ad un altro. Ma poiché egli è immagine che necessariamente rimanda al Creatore, questa pas­sione significa proprio il tradimento della sua stessa essenza. L'uomo orientato alle sostanze, desiderando essere lui l'origine e il centro della loro totale gestione, tradisce la sua verità. E le sostanze, poiché non saranno in funzione dell'uomo e delle sue relazioni, non saranno per lui il bene. Le sostanze non parteciperanno al suo amore relazionale. In questo modo lui, nel­l'uso che ne fa, guarda come nello specchio l'uso che fa di se stesso. Nella stessa maniera in cui sperpera le sostanze, sperpera se stesso.  L'uomo stringe in pugno le sostanze, ma viene il giorno in cui si accorge che queste sostanze sono state corrotte dal suo egoismo e che il vento gliele ha portate via come la pula.

 

“Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestìa ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno” (v. 14)

II figlio minore sperimenta la casa paterna come troppo stretta, come limite alla sua libertà, e percepisce il padre come padrone. Perciò se ne va. E qui c'è una strana ironia di sottofondo. Se ne va da casa perché sente il padre come padrone, mentre vuole essere lui il padrone delle sue sostanze. La sua volontà di essere padrone si conclude nell'annientamento delle sostanze. Il padrone finisce per perdere le sue cose, quindi per non essere più padrone, dato che ha sperperato tutto. E si riduce ad andare a fare il servo ad un altro padrone in una terra straniera lontano dal padre. Lui voleva essere un padrone andando via da casa "da padrone", e finisce nella carestia. Ora lui stesso, il padrone, si sente nel bisogno. Il termine "bisogno" esprime proprio la mancanza dei viveri, non aveva cioè niente di cui nutrirsi. E’ la prima immagine della morte. Allora, che padrone è se le sue sostanze lo portano a sentirsi nel bisogno? Il bisogno costringe questo figlio a diventare realmente schiavo. A casa lui si sentiva schiavo. Adesso lo è veramente. Le sostanze che voleva gestire secondo la sua volontà lo hanno portato al punto da sottomettersi al bisogno, al punto di dover servire ad un padrone straniero.

 

“Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che io mandò nei suoi campi a pascolare i porci” (v. 15)

C'è qui il paradigma del padrone e dello schiavo. Noi constatiamo, anche ad un livello psicologico superficiale, che la crescita dei figli passa attraverso momenti di ribellione, una sorta di "sbattere la porta" ai genitori, per affermare se stessi. Ma allo stesso tempo, la strada dell'affermazione adolescenziale di sé prima o poi si esaurisce e i figli tornano ad un rapporto più maturo con i genitori. Anche questo aspetto abituale della maturazione umana indica che c'è un cliché arcaico che costituisce una sorta di paradigma per l'uomo. Sembra che la realtà più difficile sia proprio quella di essere figli del padre. Nel senso strettamente teologico sembra che il peccato abbia così tragicamente intaccato la verità dell'uomo, distorcendo l'immagine di Dio come Padre, che praticamente tutta la vita dell'uomo potrà essere letta in questo difficile cammino di scoperta della propria verità di figlio, alla luce della verità di Dio come Padre. Se guardiamo la Sacra Scrittura, vediamo che converge tutta verso il nome di Dio pronunciato dal Figlio nel Getsemani: Abbà. Allo stesso tempo tutta la Bibbia ci fa vedere il dramma umano trasmesso di generazione in generazione, causato dal fatto che l'uomo non si percepisce figlio. E ci indica che la salvezza consiste esattamente nel fatto che il vero Figlio di Dio, quello non creato, ma generato da Dio stesso, viene come uomo a vivere da figlio e che in Lui si apre per gli uomini la strada della filiazione. Si può leggere tutta la Bibbia come un lento, progressivo e drammatico passaggio dalla schiavitù alla libertà, da servi a figli. Ancora oggi anche per noi nella Chiesa la realtà più difficile da scoprire e da vivere è proprio quella della libertà dei figli di Dio. Continuamente l'uomo tende a crearsi condizioni di schiavitù. Schiavitù alle proprie idee, dottrine, strutture, leggi, regole... Come se avessimo una innata ed incontrollata paura ad essere figli e ad essere liberi. Il demone della paura tiene infatti l'uomo nella schiavitù.

Vediamo così nel paradigma padrone-schiavo la parabola che percorrono Adamo e la sua discendenza dopo il peccato: l'uomo abbandona Dio e si sottomette alla schiavitù dei sostituti da lui stesso creati, si fabbrica idoli e poi li serve fedelmente. L'uomo pensa che, se non serve Dio ma sceglie se stesso come centro della vita, sarà libero. In realtà diventa servo della propria creazione. Crea i suoi sistemi, le sue convinzioni e si attacca loro visceralmente. Diventa così servo delle sue stesse certezze. C'è una tragica ironia nella convinzione umana di essere liberi una volta lontani da Dio. Nella lontananza da Dio non esiste altro che la schiavitù a se stessi, che è la vera carestia. Quanto sangue è stato versato a causa degli idoli umani. Quante volte il fratello ha alzato il coltello sul fratello a causa della schiavitù a fissazioni da lui stesso inventate. L'uomo abbandona Dio, convinto di guadagnarci con lo staccarsi da Lui, e non si accorge come diminuisce il suo prezzo. Da libero, si pone al centro di tutto, ma in maniera che al centro venga messo ciò che lui stesso ha prodotto. La conseguenza è che diventa un idolatra della propria produzione. La proibizione dell'albero in mezzo al giardino dell'Eden viene qui pervertita come una proibizione che l'uomo impartisce a quello che lui stesso ha prodotto: ciò che l'uomo inventa, che crea, è intoccabile. La lontananza da Dio sembra ormai definitiva, quella dal padre incolmabile. Questa distanza verrà colmata solo perché Dio Padre manderà il suo vero Figlio che entrerà da vivo nella tomba. Le distanze saranno accorciate per un gesto dell'amore folle di Dio. Noi uomini abbiamo gestito il destino di Cristo secondo la nostra volontà, secondo la volontà di una generazione perversa. Cristo morto nelle mani degli uomini è proprio quella sostanza che l'uomo ha posseduto. E Cristo vivo, risuscitato, con l'uomo peccatore nelle sue mani, è proprio quel Figlio che torna con i fratelli al Padre.

 

“Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla”. (v. 16)

La parabola dice che il figlio minore ha speso tutto, cioè ha consumato tutto. Ha raccolto le sue cose per andare via da casa e gestirle secondo la propria volontà, ed è finito perdendo tutto, guardiano di porci di un padrone straniero in una terra lontana, al punto che persino i porci provocano l'invidia, infatti il figlio vuole mangiare le carrube di cui si nutrono i porci. Ma il porco è un animale impuro, simbolo del mondo contaminato in cui i demoni possono trovare la loro dimora. E lui, il figlio, vorrebbe addirittura mangiare ciò che mangiano le bestie dimora dei demoni.

Ora, questo tutto speso (non avere niente, trovarsi nel bisogno) nella Bibbia può essere vissuto in modi completamente opposti. È il caso della donna che ha dato fine ai suoi averi per ungere Cristo e così ha ritrovato tutto, o della vedova che ha gettato nel tesoro del tempio tutto ciò che aveva per vivere. E’ allora evidente che usare tutto per se stessi e secondo la propria volontà significa sperperare tutto e trovarsi nel bisogno, mentre usare tutto per amore di Cristo, dare tutto secondo il disegno e la volontà di Dio, significa ritrovare tutto. Le sostanze, per rimanere tali, hanno un solo percorso, che è quello dell'amore: usarle in riferimento a Dio. Chi personalizza le sue sostanze in riferimento a Dio, a Cristo, le conserva per la vita eterna. Le opere della carità e dell'amore non saranno distrutte, ma rimangono in eterno. Le sostanze a servizio dell'amore passano nella vita eterna. Ma per entrarvi, bisogna che la nostra volontà si conformi alla volontà di Dio.

Usare le cose per amore di Cristo, cioè amare Cristo con tutte le cose, non significa privarne gli altri, accumulandole in modo egoista e geloso. Disporre delle cose secondo la volontà di Dio significa farle entrare nell'amore. Dio vuole l'amore. Affinchè l'uomo si scopra amato da Dio, Dio ha consegnato tutto nelle mani degli uomini, perfino il proprio Figlio. Dare le cose a Dio per amore significa darle a tutti, perché Dio ama tutti, si dona a tutti e vuole l'amore per tutti. Infatti il suo Figlio è stato donato per tutti e a tutti. Amare Cristo e orientare le cose a Lui vuol dire raggiungere, tramite Cristo, le mani tese di tutti, anche di quelli che forse non ci piacciono, persino dei nostri nemici.

La cosa più importante è vivere secondo la volontà di Dio e non semplicemente disporre della propria vita secondo un pensiero più o meno buono. Non si tratta, infatti, di elaborare un progetto che corrisponda a qualche idea del bene. Ci si può intestardire anche su cose sacrosante, rendendole così strumento per affermare la propria volontà. Ci si può impossessare della propria vita, delle virtù, di idee pie e devote o di grandi valori, e sotto sotto perseguire ancora la propria volontà. Per servire l'amore occorre rinunciare all'autoaffermazione. Per entrare nell'amore e lasciarsene penetrare bisogna rinunciare alla propria volontà.

L'uomo che vuole essere padrone del mondo non ha di che cosa mangiare. Si intravede qui tutto il paradosso del peccato. Adamo vuole mangiare perché sogna di diventare come il Dio creatore; il figlio minore si è preso la parte del patrimonio che gli spettava e ora vorrebbe qualcuno vicino che gli desse da mangiare addirittura le carrube di cui si nutrono i porci. I salmi e i libri sapienziali ci insegnano infatti che l'uomo si conforma al suo idolo. L'idolo rende simili a sé quelli che lo adorano. Là al pascolo, tra i porci, il figlio intravede la sua realtà e percepisce tutta la sua umiliazione. L'umiliazione è uno stato che fa constatare in modo irrevocabile che ciò che l'uomo ha voluto fare da solo, secondo la propria volontà, si rivolta contro di lui.

 

“Allora rientrò in sé e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” (v. 17)

Si sente una certa nostalgia per qualcuno che ti dia qualcosa. Una cosa è trovare una mela per strada, un'altra, ben diversa, è che una persona te la doni. Le sostanze che il figlio ha preso per averne il possesso e che ha sperperato cominciano finalmente a suscitare in lui la nostalgia della casa. I beni che ha preteso e gestito da solo per non vedere in essi il padre-padrone, cominciano a ricordargli di qualcuno che dona. Se prima, ancora  a casa, gli procurava fastidio vedere le cose sempre nel loro nesso con la persona del padre, adesso comincia a sentire la nostalgia del donatore. Se prima ha fissato lo sguardo sulle cose dimenticando il donatore, proclamando il suo diritto su di esse, adesso inizia a provare la nostalgia di qualcuno che gli dia le cose. Se all'inizio lo sguardo possessivo sui beni lo portava fuori, lontano dalla casa e dal padre, adesso, quando questi vengono meno, nasce in lui un movimento verso l'interno. Il vuoto che hanno lasciato le sostanze favorisce il movimento di tornare in se stesso. Come persona, si è perso nelle cose. Si è esiliato nelle cose, nel regno degli oggetti. Si ripete il peccato descritto nella Genesi. L'uomo abbandona Dio, che è la Persona delle relazioni d'amore, per orientarsi verso un albero, verso un oggetto. Questa è la strada percorsa dal figlio minore della nostra parabola.

 

“Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. (vv. 18-19)

II figlio, rientrando in se stesso, sperimenta dunque tutta l'umiliazione. È il momento più delicato che egli sta passando. Ciò che lo salverà sarà il fatto che, entrando nel cuore, si troverà di fronte alla significativa presenza del padre. Infatti, il ricordo gli rende presente il padre, la sua casa e le cose che in essa si trovano. Ed è lì, in compagnia del padre, contemplando la sua casa, che constata: contro di te ho peccato.

Constatare il fallimento e trovarsi da soli di fronte alla propria volontà fallita può essere fatale. La sclerosi dell'autoaffermazione può fossilizzare l'uomo nella testardaggine del più grande atteggiamento egoista. Mentre riconoscere il fallimento di fronte all'altro è già il primo passo della salvezza. L'uomo che rientra in se stesso non avendo più un appoggio esterno può, malgrado la solitudine e il fallimento, trovarsi di nuovo di fronte all'altro. Infatti l'uomo è creato per non essere solo. La verità dell'uomo è di essere inabitato dallo Spirito del Creatore. Perciò quando si rientra in se stessi, anche tramite la tragedia e i fallimenti, ci si trova di fronte all'altro, allo Spirito, che con gemiti ine­sprimibili grida: Abbà, Padre! Vediamo infatti che il figlio minore, rientrando in se stesso, sente i gemiti dello Spirito che gli rendono presente l'immagine del Padre.

Occorre stare in guardia dal non cadere nella trappola di disprezzare le cose e di intendere il ruolo del padre in modo unilaterale. Questo rientro avviene dopo che si è giunti a percepire il vuoto delle cose.

Ma anche in questo può esserci un inganno, perché si potrebbe pensare che le cose portino inevitabilmente al vuoto. Ma le cose, come tutto il creato, non sono vuote; come realtà della creazione, recano inciso il segno della Sapienza divina, al loro interno portano una traccia dell'amore con cui sono state create.

Si può rientrare in sé e non trovarsi di fronte a qualcuno, stare da soli nel proprio cuore. Capita nella vita spirituale di incamminarsi sulla via della purificazione e di un cambiamento di se stessi senza avere di fronte il Padre misericordioso, ma solo la nostra mente.

Entrare realmente in se stessi vuol dire entrare nell'amore, trovarsi di fronte all'altro che ti ama, riconoscerlo in una relazione che ti introduce in un rapporto reale, in un vero affidamento. Entrare in se stessi significa entrare nel cuore, anzi scoprire il cuore e trovarsi di fronte a un Padre misericordioso che non tradisce, ma che ti guarda con un amore perenne.

Una volta arrivati a scoprire che seguendo la propria volontà si è sbagliato tutto, si è arrivati al nulla, nell'inferno della chiusura del proprio io, manca solo un passo per riconoscere l'Altro, per lasciarsi prendere per mano ed entrare in una relazione d'amore, entrare cioè nella propria verità di persona creata a immagine della Trinità, della comunione e dell'amore. Questo passaggio è possibile solo nell'amore. Soltanto l'amore è quella realtà che ci fa realizzare proprio cedendo, rinunciando. Solo l'amore riesce ad affermare sacrificando. Rinunciare alla propria volontà fuori dall'amore diventa un'alienazione e porta alla di­struzione della persona, allo stesso modo dell'affermare la volontà propria.

 

 

ORATIO    Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

 

Signore, spesso sono come il figlio minore

e penso di essere felice allontanandomi da te.

A volte, annebbiato dalla tentazione,

sogno la vita come sballo

mentre la tua casa mi sembra una prigione

e la tua presenza ingombrante e mortificante.

Non mi rendo conto della mia stupidità

e così affondo nel fango della mia miseria.

Uscito dalle tue mani creatrici

con il profumo dell’innocenza,

mi ritrovo povero, umiliato e invecchiato,

anelando ad essere trattato come uni dei tuoi garzoni,

io che sono figlio amato e desiderato.

Padre, sono qui davanti a te,

non ho il coraggio di alzare gli occhi

per guardarti e sorriderti

come al tempo della mia innocenza.

Ma tu sei felice di rivedermi

anche se sono così malridotto.

(d. Canio Calitri)

 

  

 

 

 

 

 

CONTEMPLATIO        Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.

 È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

 

Ti lodo e benedico il tuo nome, o Gesù,

e con grande commozione ti rendo grazie,

perché attraverso la tua vita e le tue parole

mi riveli il volto e il cuore di Dio Padre.

Per Cristo, con Cristo e in Cristo

a te, Dio Padre Onnipotente,

nell’unità dello Spirito Santo,

ogni onore e gloria

per tutti i secoli dei secoli.

AMEN

 

 

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questo brano, quello che mi ha colpito di più nella meditatio, che ho ripetuto nell’oratio, che ho vissuto come adorazione e preghiera silenziosa nella contemplatio e adesso vivo nell’actio.

 Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!

 Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

 

Arrivederci!

 

 

(spunti da un ritiro quaresimale proposto alla comunità parrocchiale)